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Siria, non si può ricostruire il Paese senza la cooperazione internazionale

Le Nazioni Unite hanno calcolato che oltre l’83% della popolazione vive ormai stabilmente in condizioni di grave povertà. Sono 5,6 i milioni di siriani registrati come rifugiati e 6,2 milioni di sfollati interni. Cosa si è fatto per loro? Se qualcosa è resistito lo si deve al lavoro delle associazioni non governative che non hanno lasciato il Paese in questi anni difficilissimi. Ma servono più aiuti

di Anna Spena

Marzo 2020. Si entra nel decimo anno di guerra in Siria. Nel 2011 le prime dimostrazioni pubbliche contro il governo centrale si sono trasformate in rivolte su scala nazionale e quindi in una guerra civile nel 2012. Le proteste iniziali hanno l'obiettivo di spingere alle dimissioni il presidente Bashar al-Assad ed eliminare la struttura istituzionale monopartitica del Partito Ba'th.

Ma di mezzo c’è l’Isis, (ne abbiamo parlato qui). Ma di questo conflitto, che non è ancora finito, abbiamo campito ben poco, l’ha spiegato bene la giornalista siriana Asmae Dachan in questo pezzo. In questi anni di battaglia dove i confini sono diventi sfuocati e non si distinguono più “i buoni dai cattivi” ammesso che una distinzione abbia senso, una sola cosa è certa: a perdere sono stati e sono i civili. La crisi siriana rimane una delle più grandi crisi mondiali, con oltre 5,6 milioni di Siriani registrati come rifugiati, la maggior parte di loro nei paesi vicini (Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto), e 6,2 milioni di sfollati interni.

Le Nazioni Unite hanno calcolato che oltre l’83% della popolazione vive ormai stabilmente in condizioni di grave povertà, con un tasso di disoccupazione schizzato al 57% e circa 12 milioni di persone rimaste senza alcuna fonte di guadagno, conseguenza diretta di una guerra che ha creato una delle più gravi crisi umanitarie del mondo, lacerando nel profondo l’economia del Paese e il suo tessuto sociale. L’ultima offensiva è stata lanciata dal presidente siriano Assad e dal suo alleato russo Putin sulla regione di Idlib, nordovest del Paese. Dallo scorso dicembre ad oggi si calcola che siano circa 1 milione e 300mila gli sfollati che sono scappati per provare ad entrare in Turchia. Cosa si è fatto per loro? Se qualcosa è resistito lo si deve al lavoro delle associazioni non governative che non hanno lasciato il paese in questi anni difficilissimi e in alcuni casi hanno scelto di iniziare ad operare in Siria proprio durante gli anni di questa guerra che sembra non voler finire.

«Avremmo bisogno di molti più aiuti», denuncia Marco Perini, regional manager di Avsi middle est. «Nella capitale del Paese, Damasco, forse non cadono più le bombe ma la gente che entra nei negozi ne esce con la busta della spesa vuota». L’ong è presente in Siria da cinque anni, opera a Damasco e Aleppo. Supporta circa 600 famiglie che vivono nella zona rurale di Damasco dando loro dei polli da allevare per creare delle piccole attività generatrici di guadagno e soddisfacimento alimentare proprio, semi e attrezzi agricoli per poter coltivare pezzi di terra che si sono salvati nei bombardamenti. Ed è particolarmente impegnata nel supporto sanitario. La crisi sanitaria è tuttora profondissima. Secondo le ultime stime di OCHA, 11,7 milioni di persone hanno bisogno di aiuto. Fra essi, quasi 11,3 milioni di persone, di cui il 40% bambini, non ricevono più cure mediche e non hanno accesso agli ospedali. Negli ultimi 5 anni, l’aspettativa di vita in Siria si è ridotta di 15 anni per gli uomini e di 10 per le donne. Sia ad Aleppo che a Damasco, la domanda di cure mediche è estremamente alta: vi sono rispettivamente 2.237.750 e 1.066.261 persone che non hanno accesso a cure sanitarie. «In particolare», spiega Perini, «più della metà degli ospedali pubblici e dei centri di prima assistenza è fuori uso, si stima che circa il 46% degli ospedali e centri di salute sia distrutto o danneggiato, che ci siano solo 2,44 staff medici per ogni 1000 abitanti, di fronte allo standard di 4,45 e che quasi due terzi del personale sanitario abbia lasciato il Paese. In risposta a questa situazione è nato, da un’iniziativa sostenuta da card. Mario Zenari, Nunzio Apostolico in Siria, “Ospedali aperti”, con l’obiettivo di assicurare l’accesso alle cure mediche gratuite anche ai più poveri. Ciò è stato possibile attraverso la collaborazione con 3 ospedali privati non profit che non sono stati gravemente danneggiati nel conflitto: l’Ospedale Italiano e l’Ospedale Francese a Damasco e l’Ospedale St. Louis ad Aleppo».

Missioni don Bosco è presente in Siria con presidi permanenti da molti anni. «Sono passati nove anni dall’inizio della guerra. Stiamo per entrare nel decimo», dice Don Alejandro, salesiano che vive nel Paese. «A gennaio sono ripresi i conflitti. È un momento difficile per tutti. Noi come salesiani don bosco siamo sempre rimasti qui sia per dare speranza ma anche per dare supporto materiale ai giovani di Aleppo e Damasco».

La comunità salesiana è presente a Damasco, composta da quattro sacerdoti. Poi anche a Kafroun, vicino alla grande città di Homs e ad Aleppo. «In ognuno di questi luoghi», dice don Alejandro, «abbiamo aperto degli oratori. Delle oasi di pace per i ragazzi dove possono giocare, fare teatro e altre piccole attività. Qui le cose che possono sembrare semplici in realtà sono straordinarie. C’è una generazione di ragazzi che da quando è nata ha conosciuto solo la guerra. Vogliamo che i bambini tornino ad essere solo bambini».

La fascia della popolazione più colpita da nove anni di conflitto è appunto quella dei minori. Pensate solo dal 1° dicembre 2019 a oggi, oltre 500.000 bambini sono stati sfollati a causa delle intense violenze nel Nord-ovest della Siria, ne abbiamo parlato in questo articolo. Save the Children è presente nel Paese dal 2012. «La guerra», spiega Emanuela Rizzo responsabile paese dell’ong, «ha impatti fisici devastati. Ma non possiamo non considerare anche quelli psicologici per chi riesce a sopravvivere. Le conseguenze della guerra sui bambini, che sono così tanto esposti a violenze ed eventi traumatici, sono devastanti. Loro non hanno più la capacità si sviluppare le competenze di base della socialità, non sanno più interagire».

E se vogliamo davvero pensare alla Siria proiettandola in un momento di pace «dobbiamo», continua Rizzo, «preoccuparci oggi di curare le ferite dei bambini, non solo quelle fisiche». L’ong dall’inizio del conflitto ha sostenuto 3,2 milioni di persone, di cui 2,1 milioni di bambini. Attualmente lavora nel nord-ovest e nord-est del Paese. Durante i mesi più freddi ha distribuito coperte, sacchi a pelo e tele cerate. Sta inoltre portando avanti programmi sanitari attraverso sette presidi medici e tre aree per neo mamme. In ambito educativo supporta 125 Centri per l’Apprendimento Informale e Centri per la Cura e Sviluppo della Prima Infanzia. Inoltre, negli Spazi a Misura di Bambino aiuta i più piccoli ad affrontare i traumi subiti attraverso il sostegno psicologico e le attività ludico-ricreative. «Dobbiamo guardare», spiega Rizzo, «ai bisogni della popolazione siriana, una popolazione che è cambiata. Come comunità internazionale e come operatori sanitari dobbiamo interrogarci sulle strategie che possiamo mettere in campo sul piano della ricostruzione».

Anche WeWorld è presente in Siria dal 2011. Oggi a gestire le operazioni dal Paese c’è Giovanni Cesari. L’ong opera tra Damasco, Aleppo e Deir el-Zor. «Lavoriamo principalmente in due settori: quello educativo e nel settore del wash. Ad Aleppo, per esempio abbiamo finanziato la costruzione di una Pamking station che dà acqua a circa 40mila. Le scuole qui sono devastate dalla guerra, pochissime sono aperte ora. Noi distribuiamo Kit scuola composti da zaini, quaderni, penne, matite colorate, gomma, temperino e righello. Finanziamo, grazie ai nostri sostenitori, la riabilitazione delle scuole, equipaggiamento e servizi igienici e formiamo gli insegnati in metodologie di educazione attiva e gestione di traumi psicologici causati dalla guerra».

I bambini, si è detto, sono la fascia più fragile. Ai.bi, Amici dei bambini, sostenuto dal partner locale Kids Paradise, opera in quella che è ad oggi la zona più critica del Paese, la regione di Idlib. «Siamo nella regione dal 2014», dice Mattia Rizzi, coordinatore dei progetti di Ai.Bi.

Proprio nell’area di Idlib, dove è in corso una delle peggiori crisi umanitarie dall’inizio della guerra, Ai.Bi. è presente con i propri progetti umanitari. «Abbiamo», racconta Rizzi, «realizzato interventi di prima e seconda emergenza nelle aree di Aleppo, Idlib, Homs. In cinque anni abbiamo raggiunto oltre 60mila bambini sfollati insieme a quel che resta delle loro famiglie. I fondi raccolti con la campagna #nonlasciamolisoli serviranno per donare sollievo alle famiglie rifugiatesi all'interno dei campi profughi».

Tramite il partner locale Kids Paradise, Ai.bi acquista beni di prima necessità per i bambini, come coperte, vestiario, scarpe, alimenti per neonati, presidi medico-sanitari, e organizza spazi protetti di sollievo e di gioco, attivando interventi di PSS (Psychological support) e fornendo il pane quotidiano attraverso un forno mobile. «Supportiamo», continua Rizzi 53 campi informali, fino a due mesi fa erano solo 12. Poi l’ultima offensiva di Idlib è stata terribile. Ci sono differenti stadi in una guerra, ma ora la popolazione a Idbil è al limite. Vivere in una tenda non significa che da quella tenda uscirai. È un purgatorio. Dal 2013 qui non esiste un sistema bancario e queste persone hanno perso tutto. La maggior parte dei terreni è occupato da tendopoli. Che futuro li aspetta senza aiuto?».

Foto di Apertura Ai.bi

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