Welfare
Quando il non profit finanzia il carcere
L'esperienza del Fondi di Solidarietà del carcere di Foggia, al centro delle rivolte di queste ore. Le risorse sono destinate a soddisfare bisogni primari che condizionano la qualità della vita dei detenuti in stato di grave indigenza, quali l’acquisto di farmaci di fascia C, pagamenti di ticket sanitari, telefonate ai familiari. Il racconto di una volontaria
L’ultima volta che sono entrata in carcere, a febbraio, c’era la presentazione di un libro. Qualche giorno più tardi, con le notizie di Mattia – il paziente 1 di Codogno – abbiamo scoperto che il coronavorus era arrivato in Italia. La scelta di non entrare negli istituti penitenziari, condivisa con gli operatori e i volontari, è stata veloce. Non c’era molto su cui riflettere: la priorità era evitare che il contagio (anche se allora sembrava lontano) potesse arrivare in un luogo in cui il livello di promiscuità – considerando le situazioni di sovraffollamento – è molto alto.
Sono stati “congelati” tutti i progetti. È stata una decisione veloce, ma non indolore. Le immagini di quella presentazione erano ancora fresche. I ristretti avevano incontrato nel teatro dell’istituto foggiano Claudio Fava, per la presentazione de “Il Giuramento”. Due di loro avevano letto bellissime recensioni; tutti avevano accompagnato con il battito delle mani i componenti di una band studentesca garganica. Ragazzi giovanissimi e talentuosi, emozionati di suonare su quel palco, ma entusiasti. Quel pomeriggio di bellezza e cultura in carcere era stato organizzato in collaborazione con l’associazione LQS, con le insegnanti dei ragazzi e grazie agli operatori del carcere.
A quest’ultimi, poliziotte e poliziotti, educatrici, medici e psicologi, amministrativi e direzione, a tutto il personale e alle loro famiglie è andato il mio pensiero quando ho appreso della rivolta in carcere del 9 marzo. Non è un lavoro facile il loro, sempre in trincea. Spesso impegnati a gestire emergenze di una casa circondariale che dovrebbe accogliere 365 detenuti e invece ne tiene in custodia oltre 600. Colonne portanti di un’istituzione che nasce anche per riabilitare l’individuo da un punto di vista sociale e affettivo, ma che nel quotidiano si ritrova a confrontarsi con carenze strutturali disarmanti.
Eppure. Eppure io ho conosciuto agenti penitenziari con un profondo senso di umanità, nonostante i turni massacranti; ho visto personale medico e psicologi lavorare con dedizione; ho incontrato amministrativi sempre disponibili; ho parlato con direttori illuminati e mi sono confrontata con educatrici che del loro lavoro hanno fatto una missione. Purtroppo, non sempre tutto questo viene percepito nelle sezioni, dove il numero “doppio” moltiplica esigenze e sofferenze.
Non è un caso, allora, se nel carcere di Foggia sono nati progetti come il Fondo di Solidarietà. Oggi finanziato da un avviso del CSV Foggia, grazie al sostegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, è un’iniziativa dell’ARCI che ha sposato un’intuizione interna. Le risorse economiche vengono depositate su un conto corrente dedicato dell’associazione che lo versa al carcere. Da quel conto gestito dall’Ufficio Ragioneria della Casa Circondariale vengono movimentate, di volta in volta, piccole somme da destinare ai detenuti per i quali è riconosciuta, dal personale dell’Istituto, la necessità. Sono persone che non hanno nulla. Il fondo è destinato proprio a soddisfare bisogni primari che condizionano la qualità della vita dei detenuti in stato di grave indigenza, quali l’acquisto di farmaci di fascia C, pagamenti di ticket sanitari, telefonate ai familiari.
E poi ci sono il magazzino vestiario gestito dalla Genoveffa de’ Troia, i tornei di calcio, i volontari della cappellania, le associazioni che operano nella sezione femminile; ancora, i corsi di teatro, il progetto di poesia, l’attività del gruppo cinofilo, il lavoro della coop Pietra di Scarto, la scuola e tante altre iniziative.
Negli ultimi anni, nel carcere di Foggia, sono state organizzate attività trattamentali belle, importanti. Nonostante la carenza di personale e il disagio quotidiano che vivono i ristretti, troppi in una cella.
Anche per questo la devastazione, la violenza e la fuga nella rivolta, fanno male. Sono modalità inaccettabili, per quanto sia invece comprensibile il forte disagio che – in questo momento storico – può diventare un macigno troppo pesante da sopportare.
In un luogo che già priva di molte cose, per legittimi motivi di giustizia, anche l’assenza di un colloquio può diventare insopportabile. Questo è un elemento che non si può e non si deve trascurare, ma la violenza non può mai trovare giustificazione. E, forse, anche nella rivolta c’è stato chi ha approfittato dei più fragili per fuggire, probabilmente non curandosi dei diritti per cui si protestava, oscurati inevitabilmente dalla distruzione.
Al momento, ci sono ancora persone evase, non se ne conosce il numero preciso. Alcune si sono costituite, le altre sono ricercate da donne e uomini delle forze dell’ordine che, da oltre 24 ore, scandagliano strade e nascondigli.
Ciò che è certo è che la violenza produce sempre uno strappo nella società e nelle persone, dentro e fuori. Le sentenze fisseranno alcune responsabilità, ma non aiuteranno a riparare certi squarci; bisognerà ricucire le parti di un patto ideale di comunità disatteso. Occorrerà ritrovare la capacità di riconoscersi, serviranno il tempo e l’impegno di tutti.
Il riconoscimento dell’altro e della sua dignità dovranno ritrovare un equilibrio bidirezionale. Allora, anche dentro un sistemo freddo e problematico, lo spazio rispettoso dell’umano ritroverà la sua essenza.
*giornalista e operatrice del CSV Foggia. Con edizioni la Meridiana ha pubblicato “Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre” (2017) e “Solo Mia. Storie vere di donne”
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