Volontariato
Il telefono del vento, per parlare con chi non c’è più
In un giardino del nord est del Giappone c'è una cabina telefonica bianca, con un vecchio telefono in bachelite. Migliaia di persone ogni anno arrivano qui per alzare la cornetta e parlare con chi non c'è più. «Il telefono riapre una possibilità di dialogo interiore ma soprattutto di creare legami reali e tangibili tra vivi che consentano di rimanere ancorati al presente e di pensare ad un domani possibile. Il vero miracolo è il senso di comunanza e di vicinanza che si percepisce con chi, perso nel proprio dolore, ha scelto di frequentare quel posto», dice Francesca Brandolini, psicologa di Vidas
In un giardino privato del nord est del Giappone, dal 2010 c'è una cabina telefonica bianca, con dentro un vecchio telefono in bachelite. Da tutto il paese, ma anche dal resto del mondo, arrivano ogni anno migliaia di persone che alzano la cornetta per parlare con chi non c'è più. È il telefono del vento, spunto per "Quel che affidiamo al vento", un romanzo appena pubblicato da Laura Imai Messina, un'italiana che vive in Giappone e di un film giapponese appena uscito, The phone of the Wind. Già nel 2017 un documentario l'aveva raccontato. È un telefono collegato al nulla, per parlare al proprio caro. Chi ha subito una perdita così può esprimere i suoi sentimenti e cercare di lenire il proprio dolore.
Francesca Brandolini è psicologa di Vidas, l'associazione fondata da Giovanna Cavazzoni a Milano nel 1982 per offrire assistenza socio-sanitaria completa e gratuita ai malati con patologie inguaribili, sia domicilio sia nell’hospice Casa Vidas. Con lei abbiamo cercato di capire il significato profondo di questa idea.
È giusto descrivere così il telefono del vento? Cos'altro aggiungere per capire meglio il suo senso e la sua funzione?
La descrizione è corretta ma non esaustiva: oltre al telefono di bachelite c’è molto di più in quel metro quadro di cabina telefonica! Il vero “miracolo” che accade in quel luogo non è soltanto imputabile al dialogo che ciascun visitatore, a modo proprio, instaura con il proprio defunto ma il senso di comunanza e di vicinanza che si percepisce con chi, perso nel proprio dolore, ha scelto di frequentare quel posto. Come se ciascuno dicesse agli altri: “non so di cosa tu stia parlando, né con chi, ma sapere che anche tu quando alzi quella cornetta provi quel conforto, o quella rabbia, o quei dubbi, mi aiuta a sentirmi meno solo”. Non me ne voglia chi ancora non ha letto il libro, ma la stessa protagonista del romanzo, pur trovando un conforto estremo nel frequentare quel luogo per diversi anni, alzerà quella cornetta soltanto verso le ultime pagine! Il telefono ha dunque la duplice funzione di riaprire una possibilità di dialogo interiore, una sorta di ponte tra l’al-di-qua e l’al-di-là, ma anche quella di creare legami reali e tangibili tra vivi che consentano di rimanere ancorati al presente e di pensare ad un domani possibile.
Il vero “miracolo” che accade in quel luogo non è soltanto imputabile al dialogo che ciascun visitatore, a modo proprio, instaura con il proprio defunto ma il senso di comunanza e di vicinanza che si percepisce con chi, perso nel proprio dolore, ha scelto di frequentare quel posto.
È un modo efficace per elaborare il lutto?
Non mi sento di attribuire al telefono del vento un’efficacia assoluta, che invece dipende dall’utilizzo che se ne fa. Sicuramente parlare con chi non c’è più offre la possibilità di aprire il cuore e dialogare con se stessi, lasciando alla fine il passato nel passato. Perdonare e perdonarsi, aprendosi alla possibilità di sollevare lo sguardo verso l’orizzonte e ricominciare a pensarsi in un futuro che non prevede più la presenza di quella persona ma che parla ancora di vita. Di vita possibile. Ma ripeto, l’aspetto interessante del romanzo sono i legami che si creano tra i diversi personaggi che frequentano quel luogo, storie che si intrecciano nella loro unicità e che permettono ai protagonisti di legittimarsi a vivere ancora.
Parlare con chi non c’è più offre la possibilità di aprire il cuore e dialogare con se stessi, lasciando alla fine il passato nel passato. Perdonare e perdonarsi, aprendosi alla possibilità di sollevare lo sguardo verso l’orizzonte e ricominciare a pensarsi in un futuro che non prevede più la presenza di quella persona ma che parla ancora di vita
La comunità scientifica che ne pensa? È qualcosa di discusso e commentato?
Sicuramente altri psicologi e psicoterapeuti avranno commentato questo fenomeno, anche sulla scia del successo del romanzo e, a breve, del film. Quello che da tempo la comunità scientifica sostiene è l’importanza durante l’elaborazione di un lutto di sentirsi ascoltati e accolti, di poter esprimere le proprie emozioni, incluse quelle indicibili di rabbia e rancore nei confronti di chi non c’è più. In quel particolare dialogo con il vento (in cui a tutti gli effetti manca l’interlocutore), chi parla ha l’opportunità di ascoltare se stesso e dare parola al cuore, senza giudizio e senza interruzioni. Il valore aggiunto di quella cabina, rispetto ad un dialogo più solitario che potrebbe, per esempio, aver luogo tra le mura domestiche, è proprio la condivisione dell’esperienza con altre persone con cui non necessariamente si parla ma che diventano allo stesso tempo testimoni e compagni di viaggio, proprio come accade durante un supporto psicologico o in un gruppo di auto-mutuo-aiuto, quando la condivisione del dolore permette di mitigare il senso di solitudine.
È un'idea che si potrebbe copiare? A che condizioni e con quali accorgimenti?
Il telefono del vento di Bell Gardia fa ben comprendere l’importanza di un legame tra vivi che condividono una pratica, anche se ciascuno affronta la perdita a modo proprio. Questo si respira in ogni passaggio del romanzo. Faccio però un po’ fatica ad immaginare una situazione analoga in un contesto differente da quello giapponese, nella cui cultura è intriso un concetto di riserbo e di rispetto molto diverso da quello a cui siamo abituati in occidente. Le copie non sono mai riproduzioni fedeli dell’originale perché difficilmente possono replicare lo spirito con cui sono nate. La bellezza di quel luogo sta, a mio parere, proprio nella spontaneità con cui è sorto. È un luogo che dovrebbe rimanere unico, come unici sono i rapporti che abbiamo tessuto, punto dopo punto, con i nostri cari che non ci sono più. Non escludo che possano nascere iniziative simili, ma resta fondamentale la spontaneità e soprattutto l’importanza di non creare illusioni, dando per scontato che sia sufficiente frequentare quel luogo per trarne sollievo. Ancora citando il romanzo, è auspicabile che un posto dove curare il dolore e rimarginarsi la vita ognuno se lo fabbrichi da sé, in un luogo che ognuno individua diverso.
La bellezza di quel luogo sta proprio nella spontaneità con cui è sorto. Non escludo che possano nascere iniziative simili, ma resta fondamentale la spontaneità e soprattutto l’importanza di non creare illusioni, dando per scontato che sia sufficiente frequentare quel luogo per trarne sollievo. Citando il romanzo, è auspicabile che un posto dove curare il dolore e rimarginarsi la vita ognuno se lo fabbrichi da sé, in un luogo che ognuno individua diverso
Perché alcune persone più di altre restano incagliate nel lutto, come se non fosse più possibile un giorno "dopo"? Che consigli si possono dare a loro e a chi vorrebbe essere loro vicino ma non sa spesso cosa fare, perché tutto sembra sbagliato?
Vivere un lutto è un percorso lungo e delicato, che richiede tempo, pazienza e tenerezza, innanzitutto verso se stessi. Non esistono scorciatoie, occorre attraversare tutti i passaggi, anche quelli più dolorosi, durante i quali si sperimentano sensazioni fisiche e stati d’animo spesso disturbanti, in cui si possono mescolare sentimenti ambivalenti come il senso di colpa e la rabbia nei confronti di chi ci ha lasciati. Tutto questo è fisiologico e utile nella misura in cui ci permette di entrare nella piena consapevolezza della perdita, del fatto che quella persona non tornerà più accanto a noi, che la nostra vita dovrà andare avanti in una maniera differente. Questo è ancor più difficile quando a morire sono le persone che avevamo dato per certe nel nostro futuro, come i figli, perché – come suggerisce l’autrice nel romanzo – «si rimane genitori anche quando i figli non ci sono più».
Non bisogna essere spaventati dal dolore, anche se vorremmo comprensibilmente che passasse in fretta (e in questo la cultura in cui siamo immersi non aiuta, perché la morte e quello che ad essa è correlato viene considerato un tabù, un evento privato da vivere senza eccessi di condivisione). Nei confronti del lutto mostriamo la stessa impazienza che proviamo di fronte ai malanni comuni come il raffreddore, ai quali non concediamo più il tempo fisiologico, dettato dalla natura, durante il quale il nostro corpo indebolito può riposare, reagire e riprendersi a che invece stordiamo con i farmaci per recuperare in fretta. La mente, ancor più del corpo, ha bisogno di tempi lunghi per fare i conti con il “per sempre” della perdita, che prende il posto – a volte in maniera traumatica e inattesa – dello “stare per sempre insieme”. La maggior parte delle persone supera spontaneamente la perdita, pur restandone profondamente segnata. Una minoranza, invece, fa molta più fatica perché non riesce a concepire la propria vita senza l’altro che non c’è più, è come se la morte avesse fermato l’esistenza di entrambi ed il futuro da soli sia persino indicibile, oltre che impensabile. La quotidianità diventa intollerabile e può essere caratterizzata da insonnia, depressione, perdita di qualunque interesse, estrema fatica a prendersi cura di sé anche negli aspetti più essenziali. Niente ha più senso e tutto viene messo in discussione. Sono questi i casi in cui può essere opportuno chiedere aiuto a figure specifiche che possano supportare la persona negli aspetti in cui si sente più fragili, dal medico per i sintomi fisici allo psicologo per quelli più squisitamente emotivi. È vero, non è facile stare accanto a queste persone, ci si sente spesso impotenti, inadeguati, a volte non graditi. Ma le relazioni con altri esseri umani restano a mio avviso il balsamo migliore per lenire le ferite di una perdita perché permettono di ridurre il senso di solitudine e, piano piano, di sentirsi ancora vivi. Stare accanto a chi attraversa un lutto non significa diventare un distributore di consigli o di stimoli ma a volte, semplicemente, offrire la propria presenza silenziosa, come a dire “non posso fare niente ma… ci sono e sono qui per te!”.
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