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Zamagni: «Davanti a una situazione critica l’individuo non può nulla e i governi hanno armi spuntate»
«Servono risorse morali e sociali che solo la società civile organizzata può dare al Paese». Per questo, spiega il professor Stefano Zamagni, «finito il clamore, la gente sarà costretta a rinsavire e a chiedersi: dove stiamo andando?»
di Marco Dotti
Aporofobia è una parola che dà nome a una paura e, al tempo stesso, rende evidente il vicolo cieco in cui si stanno perdendo le società "meritocratiche". Formata dal prefisso greco aporos, “povero, privo di risorse”, e dal suffisso fobia, “avversione, rifiuto” il termine definisce un sentimento sempre più diffuso nei sistemi di democrazia avanzata: rifiuto dei poveri, degli indifesi, di chi non ha via d'uscita, di chi non ha mezzi e risorse.
Nel 2017, la Fundación del Español Urgente, una non-profit promossa dalla Accademia Reale di Spagna che ha lo scopo di promuovere il corretto uso della lingua nei media, ha decretato aporofobia parola dell’anno.
La filosofia Adela Cortina Orts, che al tema ha dedicato un numerosi lavori (su tutti: Aporofobia, el rechazo al pobre, Ediciones Paidós Ibérica, Barcellona 2017), ha descritto questa tendenza come un misto tra un atteggiamento di superiorità e colpevolizzazione: le ricadute sono sul povero, che viene sempre più portato al centro del discorso politico proprio in quanto povero. «L'avversione è verso tutti i poveri, compresi quelli della propria famiglia, ed è cresciuta col discorso sui migranti economici», spiega Cortina, che aggiunge: la tradizionale xenofobia è diventata, a un certo punto, aporofobia. Anche il migrante non è temuto in quanto tale, ma in quanto "migrante povero".
A portare l'attenzione sulla tendenza "aporofobica" dei nostri sistemi è stato, di recente, il professor Stefano Zamagni, al quale non è sfuggito il legame con l'ideologia meritocratica. E, oggi, con il panico sociale che si sta generando da una gestione quanto meno contraddittoria dell'emergenza coronavirus.
Cosa accade, oggi, in giornate segnate da irrazionalità e panico sociale, quando non solo bar e teatri, ma mense sociali, dormitori, dispensari di cibo per i più poveri si trovano a chiudere o a fare i conti con una maglia più burocratica che sanitaria sempre più stretta?
Dobbiamo prenderla da lontano e ricordarci che, nel passato, nei confronti del povero, inteso in senso ampio, c'era una sorta di commiserazione. Una commiserazione che, ovviamente, non faceva giustizia ma, quanto meno, godeva di una minima considerazione. Oggi, non solo il povero non è aiutato a uscire dalla propria condizione ma viene addirittura disprezzato. Per questa ragione il concetto di aporafobia va legato a meritocrazia. L'ideologia meritocratica ha generato la paura del povero e la sua riduzione a mero oggetto di riprovazione. E, oggi, a contatto con un'altra paura davvero irrazionale questa riprovazione esplode all'ennesima potenza.
La nostra società ha bisogno di attribuire colpe…
Il povero è il capro espitatorio e questa società dice: sei povero? La colpa è tua. Il cosiddetto principio meritocratico funziona sostenendo che se un soggetto ne ha astrattamente le possibilità di evolvere, ma per una qualsiasi ragione non evolve e non sale nella scala sociale la colpa è del soggetto stesso. E questo soggetto va strutturalmente disprezzato. L'ideologia meritocratica ha generato mostri. Ovviamente, dobbiamo distinguere la meritocrazia, che è un dispositivo ideologico, dalla meritorietà che significa dare a ciascuno ciò che si merita. Ma non dargli il potere, perché kratos in greco vuol dire potere…
Il meccanismo che descrive è quello dello stigma sociale. Con il panico sanitario alimentato da certi discorsi sul coronavirus è cresciuto anche lo stigma e quindi l'aporafobia. Non a caso stanno chiudendo mense, dormitori, dispensari…
È una conseguenza inevitabile quando si considera la salute in termini di salutismo. Il salutismo ha bisogno di untori. E chi sono, oggi, i nuovi untori se non i poveri? La conseguenza di questa visione aberrante delle cose è la chiusura delle mense, dei dormitori, dei dispensari. Una volta presa la sbandata dell'aporafobia, un sistema si muove di conseguenza.
E rischia di trasformare il disprezzo sociale in miopia istituzionale…
Quando questa corsa alla follia sarà finità, perché è chiaro che finirà, dobbiamo creare le condizioni per una riflessione generale molto profonda. Una riflessione che, a bocce ferme, fra qualche settimana, ci metta davanti alla scelta chiara: dove vogliamo andare? Perché è chiaro che, così facendo, andiamo a sbattere. Ovviamente, anche in questo caso, a pagarne le conseguenze sarebbero i più poveri.
Da un lato c'è l'emergenza sanitaria, che doveva essere gestita. Dall'altro, il panico sociale che, al contrario, è stato conseguenza del cortocircuito di cui parlava…
C'era bisogno di creare questo caos? Se il caos si è stato creato è perché è figlio dell'ideologia di cui stiamo ragionando e della tendenza aporofobica. Se si imbocca questa via, ripetiamolo, è inevitabile andare a cercare i focolai non di una malatti, ma di presunti untori. Per questa ragione è molto grave quello che sta accadendo nei servizi per i più poveri e i più fragili. Se in momenti come questi non aiutiamo loro, a che cosa serve l'azione della società civile organizzata?
Proprio la società civile organizzata sembra non essere stata presa in considerazione né dalla politica, né dalle amministrazioni regionali, eppure dalla Cina ci è arrivata una lezione chiara (qui): non si governa un'emergenza senza società civile…
Se guardiamo, ancora una volta, la storia vediamo che chi ha inventato gli ospedali, nel XII secolo, è stata proprio la societè civile organizzata. Gli ospedali, i lazzaretti, le case di ricovero non sorsero a seguito di decisioni del sovrano, ma grazie al lavoro di tessitura delle associazioni che, liberamente, si misero all'opera. E anche qui appare chiara la contraddizione con la nostra società aporofobica: i corpi intermedi raccoglievano i reietti, i malati, i poveracci. La comunità, quindi, non li respingeva, anzi. E parliamo di tempi di malattie e pestilenze, altro che i nostri virus… L'intuizione della società civile – io aggiungo: organizzata – come ultimo argine al virus è corretto. Quando viene meno la società civile, infatti, che cosa accade? Accade che il rapporto diretto tra il singolo e il governo porta alle recrudescenze che oggi vediamo. Perché il governo, qualunque governo, ha in mano solo uno strumento: la coercizione. E il governo, ripeto: qualunque governo, può solo imporre, non comporre. La società civile organizzata in associazioni e gruppi, invece, ha in mano strumenti molto più efficaci.
Proprio nel rapporto con i più fragili, che oggi invece sono lasciati allo sbando…
Proprio con loro, perché dando aiuto, creando legami, occupandosi dell'altro la società civile organizzata si prende cura del bene comune.
Si fanno, inoltre, molti discorsi sull'informazione: ne serve di più, deve essere più corretta, pacata, attenta ai fatti…
Ma non è solo questione di informazione, anche se l'informazione è importante. È davvero questione di senso e se non facciamo appello a quella straordinaria risorsa in termini di senso che sono i corpi intermedi rischiamo di giocarci tutto e magari di perderlo.
La sfida, se la vogliamo cogliere appieno, anche in questo momento è quella di rompere le barriere, anziché erigerle. In primo luogo la barriera che – solo in apparenza – separa i sommersi dai "salvati"…
L'individualismo assiologico, a contatto con la realtà, ha mandato in cortocircuito tutto. Ma questa vicenda del coronavirus avrà, nelle prossime settimane o mesi, risvolti sociali inaspettati.
Quali effetti?
Davanti a certe calamità, l'individuo solo non può nulla e i Governi hanno un unico strumento, la forza, che si sta già rivelando inadeguata. Finito il clamore, dunque, la gente sarà costretta a rinsavire e a chiedersi: dove ci stanno portando la follia dell'individualismo assiologico, l'ideologia della meritocrazia e il delirio dell'aporofobia. Allora si aprirà la sfida per la società civile organizzata, chiamata a ripensare le forme del nostro agire e del nostro stare assieme. Prepariamoci.
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