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Voucher addio. Ma il conto lo pagano i più deboli
Additati come causa di tutti i mali, da venerdì il Governo che non dice una parola sulla uberizzazione e la gig economy ha sospeso la vendita dei voucher. Con quali conseguenze, facile capirlo. Ancor più facile capire chi pagherà il conto: giovani, disoccupati, ristoratori e commercianti. Non certo i caporali o i soliti furbetti dell'elusione
di Marco Dotti
Tra gli interessi concretamente tutelati e gli interessi che si dichiara di voler tutelare c'è un abisso. Prendiamo i voucher, per esempio. Venerdì è scaduto il termine per la vendita e, quelli già acquistari, saranno utilizzabili fino al 31 dicembre. Che cosa accadrà, soprattutto per quei settori – come la ristorazione o l'alberghiero – che hanno un inevitabile andamento oscillatorio o stagionale e non possono reggere assunzioni per colmare i picchi di domanda concentrati il fine settimana o in certi periodi dell'anno?
Nessuna risposta, né dalla Cgil – che ha innestato la valanga antivoucher – né dal Governo, che se ne è fatto travolgere.
Chiediamoci allora, tornando alla domanda da cui siamo partiti: davvero, parlando di voucher stiamo parlando di lavoratori e lavoro? Davvero, in tutti i casi e al netto dei soliti furbetti, la leva strategica messa in campo dai voucher con la riduzione del costo del lavoro per l’impresa (vero ostacolo alle assunzioni e al lavoro dipendente) è un disincentivo, anziché un incentivo alla lotta a precarietà e disoccupazione? Davvero, abolendoli sic et simpliciter, senza distinguo o eccezioni, stiamo tutelando la parte più debole, fragile, esposta della nostra società?
I voucher sono forse stati un’idea sbagliata, ma almeno sono stati un'idea. Abolirli in tutta fretta, senza un'idea di come riempire il vuoto e senza nemmeno attendere il referendum e chiedere a chi sulla propria pelle li vive o subisce oppure ne trae risorse importanti per il proprio bilacio familiare è davvero una prova di democrazia del lavoro, come dichiarano e pretendono la Cgil e i politici che, con la celerità delle cavallette, vista la mal parata del combinato sovrapposto referendum-primarie del Pd, si sono accodati? Oppure…
Mentre la gig economy impazza, l’uberizzazione disgrega e dissolve vecchie relazioni di lavoro, all’app economy tutto è permesso, anche da un sindacato oramai sempre più simile al modello nordamericano (tutela solo per alcune categorie di iscritti, in particolare i pensionati, gli altri a pane e acqua) che alle sue radici continentali, è fin troppo facile prevedere che lo stop così repentino dei voucher non taglierà la testa allo sfruttamento di manodopera (i braccianti nelle serre pugliesi e i neoschiavi della raccolta dei pomodori non sono né saranno mai pagati in voucher, ma in nero e tramite intermediazione caporalizia!), semplicemente ridurrà l’offerta di lavoro complementare consegnando al mercato nero o alla suddetta gig economy gran parte della forza lavoro che, fino a venerdì, da un sistema pur in sé criticabile traeva però lavoro e minime garanzie dai voucher. Abolire i voucher non rovescia i rapporti di forza «a vantaggio dei lagoratori», come si diceva un tempo; anzi in queste condizioni di perdurante crisi accresce la forza del malaffare.
Introdotti per la prima volta nel 2003, i voucher dovevano permettere di pagare regolarmente piccoli lavori appannaggio del “nero”, come le pulizie domestiche, le ripetizioni scolastiche, i lavori del fine settimana. Acquistati dai datori di lavoro e consegnati al lavoratore, costano 10 euro e al lavoratore ne vanno in tasca 7,5. La differenza andava a Inail e Inps, non al caporale.
Nel corso degli anni la possibilità di acquistare i voucher è stata ampliata a più settori: disoccupati da oltre un anno, pensionati e studenti. Il tutto grazie alle liberalizzazioni del 2009, del 2010 e soprattutto alla Legge Fornero del 2012.
Il Jobs Act del governo Renzi è intervenuto sui voucher innalzando da 5 a 7 mila euro netti la cifra massima che è possibile guadagnare tramite voucher in un anno. Oggi è di questa cifra, di queste minime garanzie, in un sistema devastato, sotto attacco e stanco che dovremmo discutere. Invece, la Cgil – nella cui Carta universale dei diritti del lavoro, art. 80 e 81, è tra l’altro previsto qualcosa che, a chi scrive, ricorda i voucher – ha preferito tirare dritto. Trovando un clima politicamente adatto alle battaglie sui grandi principi, ma egualmente poco propenso a andare nel concreto di quelle battaglie la frittata è stata fatta. Si fa presto, oggi, a dire che i voucher verranno sostituiti da nuovi contratti (ci risiamo con i co.co.co.?), la sostanza è che a subire le conseguenze di questa improvvisa e tardiva demonizzazione dei voucher come mezzo (ma sui fini, nulla da dire?) saranno lavoratori e imprenditori onesti. E anche il sociale.
Così,il direttore della Caritas di Bergamo, don Visconti, ha lanciato l’allarme: i voucher erano uno «strumento fondamentale per le attività sociali e caritative». La Caritas bergamasca, nel 2016, ha distribuito e commissionato lavoretti retribuiti a persone svantaggiate per un importo di 100mila euro. Poca cosa, si dirà, di fronte ai grandi numeri che piacciono ai burocrati. Poca cosa, forse, ma sempre una microeconomia che pazientemente tentava di ricomporre e ricucire un legame sociale che qualcuno vorrebbe sempre più lacerato. Tutto questo, da venerdì, è stato spazzato via. Anziché migliorare, limitare, lavorare sul concreto si è scelta la strada del talk show e del colpo ad effetto.
Tra gli interessi concretamente tutelati e gli interessi che si dichiara di voler tutelare c'è un abisso. E questo abisso, oggi, anche su questo tema, si vede tutto.
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