Cultura
Sogno 51 nuove scuole senza cancelli né citofoni
È stata nominata la commissione che esaminerà i 1.238 progetti inviati al Bando Scuole Innovative. Verranno premiati tre progetti per ciascuna delle 51 aree individuate e da qui uscirà il "paradigma" per progettare le scuole del futuro. I prime 51 nuovi edifici saranno realizzati con i 350 milioni di euro del bando.
«Sogno scuole senza cancelli né citofoni, ma che vanno attraversate per andare da una parte all’altra del quartiere. Non più corpi estranei e lasciati dormienti per la gran parte del tempo ma edifici vissuti, partecipati, concepiti come spazi di relazione in qualunque momento del giorno. Il grande tema delle scuole di domani è l’apertura al territorio»: questo sogno è di Laura Galimberti. Lei è architetto e guida la Struttura di missione per il coordinamento e impulso nell’attuazione di interventi di riqualificazione dell’edilizia scolastica. Da ieri è anche membro della Commissione nominata dalla ministra Valeria Fedeli per valutare le oltre mille proposte pervenute nell’ambito del “Concorso di idee per la realizzazione di scuole innovative” della scorsa estate: insieme a lei ci sono l’ing. Marco Bartoloni, per il Consiglio nazionale dell’ordine degli ingegneri; l’arch. Benedetta Tagliabue, come rappresentante del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca; la prof. Maura Striano, docente di pedagogia generale e sociale presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II” e l’arch. Werner Tscholl, per il Consiglio nazionale dell’ordine degli architetti. Questo concorso porterà alla costruzione di 51 nuove scuole, che dovranno essere il paradigma della scuola del futuro (qui i dettagli e le aree dove sorgeranno). La Commissione individuerà per ciascuna delle 51 aree le prime tre proposte vincitrici, che saranno premiate rispettivamente con 25.000, 10.000 e 5.000 euro. I progettisti potevano concorrere per una sola area. I progetti arrivati sono stati complessivamente 1.238. Le 51 nuove scuole saranno realizzate grazie allo stanziamento di 350 milioni di euro, previsto dalla legge ‘Buona Scuola’.
Laura Galimberti aveva affidato il suo sogno a Vita lo scorso luglio, nel numero intitolato ""Che scuola sarà?". Riproponiamo ora quel viaggio. «Una buona scuola deve essere buona a partire dai muri», spiegava innanzitutto Galimberti. E in Italia i muri non danno molte sicurezze. Sui 42mila istituti ce n’è un 12% di due secoli fa e un 59% costruiti dal 1960 in poi: paradossalmente sono questi ultimi i meno recuperabili. Il concorso per i 51 edifici nuovi «è la scommessa chiave. Perché si mette in campo un nuovo pensiero architettonico, si rilancia la riflessione sui modelli che è stata un po’ trascurata dai professionisti, che del resto erano stati messi ai margini da procedimenti sciatti e dettati solo da preoccupazioni burocratiche». Il nuovo pensiero architettonico però non nasce negli studi. Nasce dall’ascolto di chi vive la scuola. L’esperienza delle scuole aperte è quella che dal punto di vista della filosofia ha fatto davvero “scuola”. Laura Galimberti cita il caso straordinario del Liceo Cassarà di Palermo strappato all’incuria e al degrado dai suoi alunni. «È una storia, questa, che ci dimostra come ogni riforma della scuola debba partire dal basso», dice l’architetto. Al Cassarà tra le mille attività avviate grazie all’associazione Sos Scuola, gli studenti hanno recuperato e riaperto anche il bar interno abbandonato dal vecchio gestore. «Oggi il Bar del Cassarà, da luogo di abbandono e degrado è un’associazione culturale, un luogo di incontro, un laboratorio di iniziative per settecento studenti».
La scuola sottoterra e l’asilo balena
Non mancano scuole bellissime in Italia. Cantieri recenti che dimostrano come anche da parte del mondo degli architetti si sia riacceso non solo un interesse, ma anche una disponibilità ad ascoltare e a pensare. Ora speriamo nell’effetto contagio, perché è contagioso vedere gli architetti milanesi Consalez e Rossi mentre raccontano della scuola che stanno costruendo a Cernusco sul Naviglio: «Una sorta di Campus, nel quale gli edifici, avvolti da gusci permeabili alla vista, ospitano i propri giardini all’interno e sono a loro volta inseriti in un grande spazio aperto verde», dice Lorenzo Consalez. Oppure sentire Claudio Lucchin spiegare l’ingrandimento della scuola professionale Anna Harendt nel centro di Bolzano, risolto con un ambienti ipogei, cioè sottoterra. Ma incredibilmente luminosi. Vedere per credere. La luce naturale filtra abbondantemente all’interno dal lucernario e le aule si affacciano su una corte interna spaziosa e destinata alla funzione di agorà interna.
Tra le soluzioni già realizzate e più ammirate c’è certamente quella adottata da Mario Cucinella per l’asilo di Guastalla. «Quello che mi ha mosso è l’idea che i bambini non debbano stare chiusi in uno spazio ma debbano vivere lo spazio», racconta. «Una suggestione è venuta dalla pancia della balena di Pinocchio: sei dentro la pancia ma paradossalmente quello non è un luogo di pericolo, bensì un luogo sicuro. La pancia della balena allora diventa un po’ come un grembo materno. La scuola di Guastalla è questo, un grande ventre materno, senza muri, con le aule separate da vetri e la possibilità di vivere tanti ambienti spaziali differenti». Sul passato Cucinella ha una diagnosi chiara: «I 40mila e più edifici scolastici in Italia sono il risultato dell’aver fatto coincidere il luogo educativo con una norma. Per troppo tempo si è normato tutto, come se la norma producesse automaticamente qualità. Forse finalmente stiamo capendo che la norma non produce qualità e tantomeno bellezza. Dobbiamo partire non dalla norma ma dall’immaginario. Gli edifici sono sempre una forma di educazione, la scuola a maggior ragione».
A scuola di scuola
Edoardo Milesi, architetto ad Albino, da sempre ha fatto di questa filosofia i suoi punti fermi. Già 15 anni fa aveva costruito una scuola elementare a Laglio, nei pressi di Bergamo, energeticamente autonoma, che non ha mai pagato una bolletta per i consumi di energia. «E i bambini potevano anche disegnare sui pavimenti che erano scaldati», sottolinea Milesi. In teoria sono tutte risorse che possono essere reinvestite in strumenti formativi. «Il coinvolgimento di ragazzi e insegnanti nei percorsi progettuali è un’esperienza didattica straordinaria. La costruzione della scuola può essere già un momento di “scuola”. L’ho sperimentato quest’anno ad Haiti. Ho pensato che gli haitiani non potessero rimanere ancora a lungo spettatori della loro vita sociale. Così costruendo la scuola che i padri Monfortani mi avevano commissionato il primo pensiero è stato quello di rendere autonomi e capaci a loro volta di costruire le persone che avevo come operai. Alla fine otto ragazzi e una ragazza, tutti tra i 22 e i 28 anni, sono stati diplomati capicantiere e sono stati capaci di costruire due villaggi, l’ultimo di 40 case», racconta sempre Milesi. «La scuola ha fatto davvero scuola. Ma quel processo potrebbe essere replicato anche in un contesto come quello italiano, seppure in termini diversi. Qui la partecipazione prende la forma di condivisione, che fa scattare l’orgoglio dell’appartenenza. L’importante per un architetto è far diventare la scuola da subito “proprietà” di chi ne fruisce».
Una lim e un lavandino
Il tema scuola è stato centrale anche nella Biennale 2016. Lo stesso direttore Alejandro Aravena ha individuato nell’esperienza dello studio Cipiuesse di Treviso un caso di riferimento: Carlo Cappai e Maria Alessandra Segantini, i due titolari dello studio, hanno scelto di allestire lo spazio loro assegnato con una grande installazione in ferro alle Corderie dell’Arsenale. «Un nodo aperto», spiega Alessandra Segantini. «Un nodo che vuole mettere in discussione i processi convenzionali di costruzione delle scuole, per legare tutte le risorse a disposizione. Le scuole sono a loro volta dei piccoli nodi, aperti all’interazione con la comunità che le circonda». Sotto quella struttura i visitatori hanno potuto esaminare i progetti realizzati dallo studio trevigiano, come le scuole di Chiarano (2014), di Ponzano (2009) e l’asilo di Covolo (2006). Titolo dell’installazione: “eduCARE”. Un “prendersi cura” che risuona innanzitutto come programma di lavoro per se stessi in quanto architetti: «Abbiano capito che si doveva ripartire dal tempo del bambino, attraverso progetti meno eclatanti e con più umiltà. Ci voleva un “prendersi cura” da parte dei progettisti, che invertisse il modo con cui viene percepito un edificio scolastico. Non c’è niente di più triste di vedere, come tante volte accade, un edificio distrutto proprio da chi lo usa».
Nel concreto il percorso di ascolto dei due architetti dello studio Cappai ha portato ad alcune soluzioni che sono poi state assunte anche dalle Linee Guide del ministero. Ad esempio da una struttura a corridoio si passa a una struttura a piazza, come spazio condiviso, su cui si affacciano le aule. «La biblioteca va collocata all’ingresso della scuola, perché è lo spazio per eccellenza di interscambio con la comunità. Fuori dall’orario di lezione deve continuare a vivere. È in qualche modo il primo “nodo aperto” delle nuove scuole», spiega Segantini. Quanto alle classi Segantini e Cappai sono partiti dall’idea che l’organizzazione non debba essere per aule tematiche, ma che ogni bambino debba avere una “sua” classe: il bisogno di identità non è in conflitto con il bisogno di comunità. La classe però a sua volta deve essere aperta. «Abbiamo introdotto l’idea di muri divisori alti 1,20, che continuano al di sopra con dei vetri. Questo permette la giusta privacy alla classe. Il vetro diventa invece strumento di relazione, attraverso il quale comunicare agli altri quello che si sta facendo.
Lo studio Cipiuesse ha poi introdotto un altro elemento che precisa ancor meglio la filosofia di approccio: «Per ogni lavagna Lim mettiamo anche un lavandino. Perché i bambini non devono tralasciare la manualità, devono lavorare la creta, devono sentire la libertà di sporcarsi le mani». L’ultimo atto del percorso del cantiere è tutto dedicato ai bambini, che vengono chiamati ad essere protagonisti di una rappresentazione teatrale il cui soggetto è proprio la costruzione della loro scuola. Per sentirla davvero “loro”.
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