Cultura

Tornare a Giuseppe: responsabilità, custodia, libertà

Quella di Giuseppe, padre affidatario di Gesù, è un'immagine potente. Talmente potente che, scrivono Johnny Dotti e Mario Aldegani in "Giuseppe siamo noi", magistrale libretto appena pubblicato dalle edizioni San Paolo, mostra come la «nobiltà di stirpe» sappia e possa trasformarsi in «nobiltà di spirito» e come la libertà sia, prima di tutto, libertà di mettersi al servizio

di Marco Dotti

Quella di Giuseppe, padre affidatario di Gesù, è una figura potente. Talmente potente che, scrivono Johnny Dotti e Mario Aldegani in Giuseppe siamo noi magistrale riflessione in forma-libro appena pubblicata dalle edizioni San Paolo di Milano (pp. 140, euro 12), mostra anche allo spaesato uomo d'oggi come la «nobiltà di stirpe» sappia e debba trasformarsi in «nobiltà di spirito». Giuseppe è simbolo di libertà e servizio se libertà è, prima di tutto, libertà di aver cura, di abitare l'umano – servendo l'umano, non i suoi idoli vuoti.

Cade oggi, 19 marzo, la festa di San Giuseppe. In ebraico, il nome Giuseppe significa: «Dio aggiunga», aggiunga in famiglia. E fu proprio durante la festa liturgica di san Giuseppe di quattro anni fa (19 marzo 2013) che Papa Francesco iniziò il suo ministero pastorale. Ed è lì che Papa Francesco, il Papa venuto «dalla fine del mondo» pose l'accento su un verbo, custodire, che tanta parte di sé avrà e ha in quel documento-chiave che è l'Enciclica Laudato si'. Chiediamoci: sappiamo, noi, custodire? In nome di chi, per chi? Uomini senza un fine, ci troviamo oggi anche senza mezzi. Bisogna scegliere: o permettiamo che le domande essenziali riaffiorino in questa crisi o, forse, è bene tacere per sempre.

Giuseppe, leggiamo nel Vangelo di Matteo (1,24) «fece come gli aveva ordinato l’Angelo del Signore e prese con sé la sua sposa». Giuseppe chiamato a una missione: essere custode. Custode di Maria e di Gesù. Giuseppe, insegnava Papa Francesco già in quella sua omelia di inizio pontificato, è custode perché sa ascoltare, si sa lasciar guidare.

«Sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge». La vocazione del custodire è una chiamata alla decisione, un passaggio all'atto, responsabile, amoroso, ma deciso perché fondato sulla fiducia, tanto che «quando l’uomo viene meno a questa responsabilità di custodire, quando non ci prendiamo cura del creato e dei fratelli, allora trova spazio la distruzione e il cuore inaridisce». Figura contrapposta a Giuseppe, figura dell'arbitrio e della prepotenza irresponsabili, figura del cuore indurito è Erode, che deturpa il volto dell'altro. Quis custodiet ipsos custodes?, chi custodirà il custode? Solo, libero, senza riparo Giuseppe troverà riparo nell'amore per l'altro e dell'Altro, radicando la sua libertà (libertas minor), in quella libertà più grande (libertas maior) che ha il suo fondamento nel Bene, senza il quale non si dà custodia, né cura ma paura.

Chi non serve, è asservito. Tutti, scrivono Dotti e Aldegani, abbiamo qualcosa da custodire, anche in un tempo sradicato e sradicante. Per questo, Giuseppe è figura di una potenza etica generativa esemplare. «Nel sistema delle relazioni umane, per ciascuno di noi ci sono momenti della vita in cui siamo chiamati a essere custodi dell'altro, può essere una vocazione o un dovere, ma in ogni caso è una responsabilità».

Johnny Dotti e Mario Aldegani insistono molto, su questo legame con la responsabilità, introducendo, per l'uomo d'oggi, sine vocatio ma anche ebbro nel vortice del continuo consumo-richiesta-consumo di "diritti, una nozione antica, splendida nella sua urgente inattualità: dovere. Che sia per vocazione o per dovere, ma in ogni caso è per responsabilità che l'uomo, oggi più che mai, è chiamato a custodire. Anche le piccole cose.

Davanti alla dimensione meramente tecnocratica del desiderio, privato di limiti e potenziato fino allo spasmo, trasformato in utile e in profitto dal biocapitalismo, Dotti e Aldegani si richiamano al principio delle piccole cose. Abbiamo sì il dovere di impegnarci per l'universale, ma senza mai calpestare il particolare. Il cielo non si conquista a spese della terra. Al futile, dobbiamo opporre l'inutile. Un inutile che i nostri autori chiamano «inutile necessario». Saper stare nella vita, saper stare ne quotidiano, coltivare le virtù della pazienza artigiana: questo ci insegna Giuseppe. E ci insegna a aver cura di noi, delle nostre parole e dei nostri pensieri, non meno dei nostri atti.



Insieme a lei, nella santa famiglia di Nazaret, risalta la figura di san Giuseppe. Egli ebbe cura e difese Maria e Gesù con il suo lavoro e la sua presenza generosa, e li liberò dalla violenza degli ingiusti portandoli in Egitto. Nel Vangelo appare come un uomo giusto, lavoratore, forte. Ma dalla sua figura emerge anche una grande tenerezza, che non è propria di chi è debole ma di chi è veramente forte, attento alla realtà per amare e servire umilmente. Per questo è stato dichiarato custode della Chiesa universale. Anche lui può insegnarci ad aver cura, può motivarci a lavorare con generosità e tenerezza per proteggere questo mondo che Dio ci ha affidato.

Laudato si’, 242

«Custodire», insegnava Francesco in quella sua prima omelia, vuol dire «vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono». Custodire è vigilare, aver cura, difendere, difendersi. L'etica della responsabilità non più disgiungersi dall'etica dei principi, o – dinanzi alla catastrofe tecnocratica incombente – farebbe ricadere l'innocente e il giusto nelle mani dei violenti. Tutto parte dal cuore e al cuore ritorna. Questa, nel segno di Giuseppe, è la dignità dello spirito a cui cielo e terra ci chiamano. Liberi.

In copertina: Gerrit van Honthorst – (Gherardo delle Notti), Gesù nella bottega di san Giuseppe (1617-1618), olio su tela conservato all'Ermitage di San Pietroburgo

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