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Sud Sudan: vuoi salvare vite umane? Prego, sono 10.000 dollari

Con oltre un milione di persone minacciate dalla carestia e il 42% della popolazione che necessita in urgenza di assistenza alimentare, il Sud Sudan è alle prese con una delle peggiori crisi umanitarie al mondo. E il regime sud sudanese che fa? Semplice, impone alle ONG una tassa annua di 10.000 dollari per ogni cooperante internazionale.

di Joshua Massarenti

Prendi uno Stato nato 16 anni fa dopo decenni di guerra civile, mettici un regime tra i più corrotti al mondo e una classe dirigente incompetente pronta a tutto per spartirsi la manna petrolifera che giace nel sottosuolo del territorio che controlla, un pizzico di cambiamento climatico, una scorza di tensioni sociali sull’accesso alle terre, tassi di analfabetismo e povertà alle stelle, quasi 5 milioni di persone in preda alla fame, scecheri il tutto e ottieni uno fra i peggiori paesi al mondo in cui lavorare: il Sud Sudan.

Oggi a farne le spese sono le organizzazioni non governative impegnate in una delle più gravi crisi umanitarie del pianeta. Secondo le Nazioni Unite, 100.000 sud sudanesi sono colpiti da una carestia che sta minacciando un altro milione di persone. Non solo. Il 42% della popolazione – circa 4,9 milioni di uomini, donne e bambini – necessita in tutta urgenza di assistenza alimentare. Una situazione catastrofica che ha spinto il regime del presidente Salva Kiir a dichiarare ufficialmente lo stato di carestia il 21 febbraio scorso.

Ma il governo sud sudanese, noto per disporre di un budget statale alimentato dal petrolio e dagli aiuti della Comunità internazionale, non si è limitato a mandare SOS alle Nazioni Unite. Dopo il crollo del prezzo del petrolio sui mercati internazionali, e il conseguente calo – brutale – dei ricavi petroliferi che alimentano le casse dello Stato (nonché le tasche di chi lo dirige e amministra), il regime di Kiir ha pensato bene di aumentare in modo vertiginoso le tariffe dei permessi di lavoro concessi ai lavoratori espatriati.

Secondo le Nazioni Unite, 100.000 sud sudanesi sono colpiti da una carestia che sta minacciando un altro milione di persone. Quella del Sud Sudan è considerata una delle peggiori crisi umanitarie al mondo.

“Tre tariffe sono state annunciate, calcolate in base al livello di competenza del personale espatriato e la durata prevista dal contratto: 10.000 dollari, 2.000 dollari e 1.000 dollari”, ricorda Le Monde. La prima categoria riguarda i “professionisti”, ivi compreso i cooperanti, la seconda “gli operai” e la terza “i braccianti”.

Finora per ogni cooperante internazionale le ONG versavano 100 dollari all’anno. “Passare a 10.000 dollari rende il nostro lavoro in Sud Sudan quasi impossibile”, sostiene Rebeckah Piotrowski, direttrice di programma presso Action contre la Faim. Il governo sud sudanese giustifica l’aumento con la necessità “di accrescere le rimesse dello Stato”, duramente colpite dai mancati guadagni generati nell’ultimo biennio dalla vendita del petrolio nazionale, che secondo la Banca africana di sviluppo (Afdb) copriva fino al 2015-2016 il 95% delle entrate pubbliche. Soprattutto, la direttiva contraddice la promessa fatta da Salva Kiir di voler facilitare l’accesso delle ONG alle aree più colpite dalla crisi umanitaria.

Le spese richieste sono totalmente esorbitanti e la decisione presa dal governo scioccante, soprattutto in una situazione così drammatica come quella che stiamo attraversando con la carestia.

Elizabeth Deng, esperta di Sud Sudan presso Amnesty International

Ma il governo continua a rigettare le accuse delle ong. Sul sito del quotidiano keniota The Daily Nation, il portavoce del presidente Kiir, Ateny Wek Ateny, non usa mezzi termini: “il permesso di lavoro è un documento banale, ogni paese ha il diritto di imporre agli stranieri. Se non potete pagare 10.000 dollari, allora impiegate una risorsa locale anziché un espatriato”. Toni durissimi quindi giustificati dal fatto che “se in passato il governo del Sud Sudan era addormentato, oggi si è svegliato”.

I diretti interessati apprezzeranno, tra cui alcune ong italiani presenti nel paese come il CUAMM, AVSI e Intersos. Operativa nel paese dal 2006, CUAMM sta implementando progetti di salute pubblica in 9 contee disseminate in 4 Stati. In un post publicato ieri, il suo direttore, don Dante Carraro, spiega che nell’ambito dell’attuale crisi umanitaria “il nostro intervento sarà concentrato nell’area di Panyijar e vuole raggiungere la popolazione sfollata dalle contee di Leer, Mayendit e Koch, oltre che le persone che già vivevano nella paludi lungo il Nilo, portando assistenza nutrizionale, assistenza sanitaria di base, vaccinazioni e trasporto dei casi gravi nei centri sanitari limitrofi”. “C’è bisogno di tutto”, sottolinea Carraro, “cibi speciali per mamme e bambini malnutriti, farmaci, vaccini e fornitura alimentare per tutta la popolazione”.

C’è bisogno di tutto: cibi speciali per mamme e bambini malnutriti, farmaci, vaccini e fornitura alimentare per tutta la popolazione.

don Dante Carraro, direttore di CUAMM

Dal canto loro, gli operatori umanitari di INTERSOS stanno lavorando per contrastare gli effetti della siccità con diversi progetti in Upper Nile, Unity, Jonglei, Western e Central Equatoria, volti a rispondere anche alla tragica crisi umanitaria ancora in corso in seguito al conflitto interno esploso nel 2013. INTERSOS sta portando aiuto a migliaia di persone sfollate in fuga dalle violenze, distribuendo cibo e beni di prima necessità, garantendo l’accesso all’acqua pulita, proteggendo donne e bambini a rischio di abusi e violenze, costruendo scuole e spazi sicuri per garantire l’accesso all’istruzione e ai servizi ricreativi ai bambini vittime del conflitto.

“Se la siccità è determinata anche da condizioni naturali, la carestia dipende interamente dal mancato intervento o dai danni prodotti dall’uomo, che per i paesi di cui stiamo parlando significa conflitti permanenti che hanno portato al collasso le strutture statali e aiuti insufficienti. Per questo lanciamo un appello affinché le agenzie internazionali garantiscano i fondi necessari per far fronte a questa nuova emergenza, in particolare per proteggere i bambini, ed evitare nel modo più assoluto una carestia come quella del 2011”, è il grido lanciato da Giacomo Franceschini Direttore dei Programmi di INTERSOS.

Lanciamo un appello affinché le agenzie internazionali garantiscano i fondi necessari per far fronte a questa nuova emergenza.

Giacomo Franceschini Direttore dei Programmi di INTERSOS.

Le pressioni del governo sud sudanese sulle ong rischiano di fragilizzare progetti implementati in condizioni di per sè già molto precarie. Il 13 marzo scorso, otto cooperanti dell’ente non profit americano Samaritan’s Purse sono stati rapiti da un gruppo ribelle nei pressi di Mayendit, circa 700 chilometri a nord est della capitale Juba. Il rapimento sarebbe stato finalizzato ad un riscatto da pagare per la liberazione degli ostaggi e la consegna di aiuti umanitari.

Nonostante l’ONU abbia definito la crisi sud sudanese “il più grave evento dal 1945 in poi” e richiesto fondi pari a 1.700 miliardi di dollari per scongiurare una catastrofe umanitaria senza precedenti, la Comunità internazionale sembra di nuovo disattenta.

Credito foto di copertina: Albert Farran/Getty Images.


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