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Grecia, il flop umanitario più costoso di sempre
Centinaia di milioni di euro per fare fronte ad un’emergenza umanitaria in cui non si è riusciti a garantire nemmeno i servizi basilari ai profughi arrivati negli ultimi due anni. È l’emergenza migranti in Grecia il più costoso flop umanitario di sempre, secondo un’inchiesta del sito di approfondimento Refugees Deeply
Persone costrette a vivere per mesi dentro fabbriche abbandonate in condizioni disumane, bambini accampati nelle tende sotto la neve, con un’alimentazione razionata, che non tiene conto delle esigenze dei più piccoli nella fase dello svezzamento, tanto che, camminando tra le tende dei campi profughi, non è raro sentire le lacrime di bebè affamati. Eppure la cosiddetta “emergenza migranti” in Grecia rappresenta il più costoso sforzo umanitario di sempre e anche il più inefficace.
A spulciare tra i conti dell’emergenza, il sito di approfondimento Refugees Deeply che, in una lunga inchiesta ripresa dal quotidiano britannico The Guardian, analizza i fondi arrivati nel Paese cercando di capire perché, a fronte di uno stanziamento di centinaia di milioni di euro, non si sia riusciti a garantire l’accesso ai servizi di base, e a sistemazioni dignitose, ai 57mila profughi rimasti bloccati nel Paese dopo la chiusura delle frontiere, di cui circa il 40% sono bambini.
Secondo Refugees Deeply, dal 2015 sono confluiti in Grecia 803 milioni di dollari, circa 760 milioni di euro, una somma che comprende i fondi per ora allocati e quelli già spesi, le donazioni private e i fondi bilaterali.
La Commissione Europea che controlla il Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami) e il Fondo per la sicurezza interna (ISF) avrebbe destinato 541 milioni di dollari, circa 510 milioni di euro, alla Grecia per coprire i costi di controllo delle frontiere, l’asilo e la protezione dei rifugiati. Questi fondi, resi disponibili nel 2014, avrebbero dovuto essere utilizzati anche per l’allestimento degli hot spot nelle isole dell’Egeo e per quello dei centri di accoglienza. In realtà però, poiché il governo greco non aveva implementato tempestivamente il piano strategico necessario per sbloccare i finanziamenti, l’accesso a questi fondi è stato solo parziale, e l’incremento degli sbarchi nel 2015 ha reso necessario ricorrere ad altre risorse economiche per l’emergenza, sempre provenienti dalla Commissione Europea. Nel febbraio 2016, circa 70 milioni di euro sono stati destinati al Ministero della difesa greco incaricato di gestire gli hot spot sulle isole, a maggio dello stesso anno, dopo la chiusura del campo informale di Idomeni, nel nord del Paese, sempre al Ministero della difesa è stata affidata la gestione in collaborazione con Unhcr, dei circa 34 campi governativi, sistemazioni di fortuna, la maggior parte ricavati in ex complessi industriali, fabbriche e magazzini abbandonati.
Per ogni 100 dollari spesi, 70 sono stati sprecati
Eppure 803 milioni di dollari, come fa notare Refugees Deeply sono moltissimi soldi, contando che, se 1.03 milioni di profughi sono entrati nel Paese dal 2015, la maggior parte dei fondi sono stati invece destinati ai circa 57mila migranti rimasti intrappolati nell’emergenza causata dalla chiusura delle frontiere a fine febbraio 2016, quando il blocco ha provocato un vero e proprio imbuto umanitario nel nord della Grecia. Un investimento quindi da 14.088 dollari a persona, nettamente superiore alla media delle risorse impiegate nelle emergenze, basti pensare che i fondi arrivati ad Haiti per gli aiuti destinati ai 3 milioni di abitanti colpiti dal terremoto del 2010 sono ammontati a 3.5 miliardi di dollari secondo la piattaforma online delle Nazioni Unite specializzata nelle crisi umanitarie Relief Web, per una media di circa 1.166 dollari a persona.
A confermare il dispiego di risorse senza precedenti in Grecia, delle fonti interne alla Direzione generale per gli Aiuti umanitari e la protezione civile della Commissione europea. Un funzionario rimasto anonimo ha dichiarato a Refugees Deeply che “per ogni 100 dollari spesi, 70 sono stati sprecati”.
Diverse le ragioni dietro questa débacle. Primi tra tutti, i problemi di comunicazione e coordinamento tra istituzioni ed enti diversi. Se da una parte l’Unhcr, nella scomoda posizione di dover gestire un’emergenza su suolo europeo, ha condotto una campagna di advocacy per i migranti giudicata da molti esponenti della società civile troppo timida nei confronti dell’Unione (che è anche tra i principali sostenitori dell’Agenzia a livello globale), dall’altra è stato costretto a confrontarsi costantemente con il governo greco. Un delicato equilibrio diplomatico che, spesso, secondo molti, non ha funzionato: “Il coordinamento degli aiuti è stato uno degli ostacoli principali, con l’Unhcr che non è stato in grado di lavorare in modo produttivo con il governo e il governo che non è stato in grado di prendere decisioni strategiche, urgenti e veloci.” Ha dichiarato Oxfam.
Problemi organizzativi, rapporti diplomatici delicatissimi, e a rendere più complessa e la gestione delle risorse, l’arrivo nel Paese dei giganti dell’assistenza umanitaria e di decine e decine di piccole associazioni. Da Medici Senza Frontiere, a Save the Children, all’International Rescue Committee (IRC), fino a migliaia di volontari indipendenti, sono arrivati in Grecia nell’ultimo anno e mezzo.
E se l’emergenza umanitaria era sicuramente reale, secondo Refugees Deeply ad aver giocato un ruolo decisivo in questa enorme mobilitazione è stata anche l’ondata emotiva. Il 2 settembre 2015 la tragedia dei migranti in fuga dalla guerra aveva preso un nome, quello del piccolo Alan Kurdi, annegato nella tragica attraversata tra la Turchia e la Grecia. L’immagine di quel bambino, inerme riverso sulla sabbia aveva reso impossibile voltarsi dall’altra parte, almeno per molti. Nella settimana successiva alla pubblicazione della foto, condivisa oltre 20 milioni di volte sui social network, la Croce Rossa Svedese aveva ricevuto 55 volte l’ammontare medio di donazioni e Carolyn Miles, Presidente di Save the Children, aveva dichiarato al New York Times che, mentre nei primi 8 mesi del 2015 l’organizzazione aveva raccolto 200mila dollari per i progetti in Siria, solo nella settimana successiva alla diffusione della foto del piccolo Alan, le donazioni avevano raggiunto gli 800mila dollari.
L’acqua potabile viene fornita solo inbottiglie. Il pavimento è pieno di polvere e fango e l’aria è irrespirabile. Mi sono bastati quindici minuti nel campo per uscire con un mal di testa terribile.”
Antonio Nicolini, volontario a Sindos, 23 maggio 2016
Difficile percepire l’entità dei fondi disponibili, camminando tra le tende dei campi allestiti dal governo. Lo scorso giugno, Amy Frost, responsabile di Save the Children in Grecia, aveva raccontato di “Famiglie costrette a dormire in tende vuote su una coperta che avevano disteso sulla terra nuda.”, sottolineando che, “Per l’Europa del 2016 questo è assolutamente inaccettabile”, mentre Antonio Nicolini, un volontario intervistato da Vita.it, tra i pochissimi ad essere riusciti ad entrare a Sindos, uno dei campi militari dove erano state trasferite le prime famiglie, dopo lo sgombero di Idomeni, aveva descritto una situazione sconvolgente. “Ci sono tre hangar polverosi dove l’aria è irrespirabile, c’è poca luce e ci sono appena 18 bagni per 600 persone, tra cui moltissimi bambini e diverse donne incinte.”
Particolarmente difficili le condizioni proprio per le donne in attesa. Moltissime hanno dichiarato di non avere avuto accesso all’assistenza sanitaria durante la gravidanza e di non avere nemmeno mai fatto un’ecografia prima del parto.
Meglio morire subito a casa propria, che morire lentamente qui”.
Ad oggi, secondo i dati di Unhcr, sono 40mila i migranti bloccati in Grecia sulla terraferma, 10mila quelli rimasti sulle isole. Da maggio 2016 il numero dei campi profughi allestiti sulla terraferma è cresciuto fino a raggiungere la quarantina, ma negli ultimi mesi, fortunatamente, sempre più persone sono state ricollocate negli alberghi e negli appartamenti, dove stati resi disponibili 24mila posti letto, per chi ha figli piccoli o disabili e per i più fortunati, quelli in attesa della re-location in altri paesi europei. Sempre di più, invece, i profughi che decidono di rimanere nel Paese. Nel 2015 erano 13.200 le persone che hanno fatto richiesta di asilo in Grecia, una cifra salita a 38.100 lo scorso anno.
Un numero imprecisato di migranti invece è riuscito a ripartire, proseguendo per la rotta balcanica, molti sono rimasti intrappolati in un altro limbo, ancora più duro: sono circa 12mila i migranti bloccati in Serbia, oggi.
“Qualcuno”, racconta un volontario indipendente in un campo governativo greco, “ha addirittura deciso di abbandonare il Paese, ripercorrere il percorso a ritroso, tornare in Turchia e poi, chissà, forse in Siria”. D’altronde è proprio questa la frase che si sente ripetere più spesso dai profughi: “Meglio morire subito a casa propria, che morire lentamente qui.”
Foto: LOUISA GOULIAMAKI/AFP/Getty Images
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