Cultura

Il post rock dei Wilco per leggere tra le righe

Recensione dell'ultimo lavoro dei Wilco (di Enrico Barbieri)

di Redazione

Un accordo fuori luogo, una nota leggermente stonata, l?intrusione clandestina di materiale sonoro spurio: la musica di Yankee Hotel Foxtrot, quarto lavoro degli americani Wilco, scivola via obliqua. There is something wrong, c?è qualcosa che non va. Jeff Tweedy lo canta anche, con voce rotta. Il titolo dell?album è preso in prestito dalla radio che il Mossad usava per mandare messaggi in codice: l?opera, insomma, richiede di leggere tra le righe, decrittare. Quella veste un po? dimessa che appare al primo ascolto comincia allora a rivelare la sua vera trama, intessuta con materiali preziosi. I riferimenti in Yankee Hotel Foxtrot sono infiniti: intanto c?è la bella voce di Tweedy, che s?avvicina nel timbro caldo a quella di Elvis Costello. Poi ci sono i Rolling Stones, evocati sul finale di I?m the man who loves you con un diabolico coretto. C?è un omaggio, naturalmente in forma di chitarra, al folk beat di papà Neil Young. Poi rumori elettronici di fondo, disturbi di frequenza e più d?un ritorno d?onda da oltre Oceano. Un gioco di citazioni mai lezioso: gli Wilco fanno post rock. Tutto è osservato da un certa distanza o come se si trattasse di un reperto archeologico. E il messaggio cifrato? Un senso amaro della musica, del mondo. Più la dichiarazione che il rock sarà pure morto, ma qualche suo pezzo ha ancora una pervicace capacità di resistere al tritatutto del pop.


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