Famiglia

Il treno della memoria: un viaggio contro le nostre paure

Un docente di filosofia ha accompagnato i suoi ragazzi nei campi di concentramento, con il "Treno della Memoria". «Sono stati gli interventi dei ragazzi a commuoverci, forse più di ciò che abbiamo visto. Perché se grande è la frustrazione di noi docenti nel nostro quotidiano “viaggio contro la paura”, straordinario è ciò che proprio in questi momenti dai nostri alunni ci viene donato»

di Massimo Iiritano

«Non mandate i figli in gita ai campi di sterminio. Lì si va in pellegrinaggio. Sono posti da visitare con gli occhi bassi, meglio in inverno con vestiti leggeri, senza mangiare il giorno prima, avendo fame per qualche ora». Le parole di Liliana Segre riecheggiavano nella nostra mente durante il lungo viaggio, 32 ore di autobus, che ci ha condotti ad attraversare l’Europa, partendo dal profondo Sud, fino ai gelidi campi dello sterminio nazista: Terezin, Auschwitz, Birkenau.

È proprio a partire da quelle parole che si può forse comprendere il senso di ciò che i ragazzi e le ragazze del “Treno della memoria” da anni portano avanti, coinvolgendo in ogni tappa circa 500 alunni provenienti da regioni diverse. Stretti insieme in un unico abbraccio fatto di emozioni, paure, stanchezza, ricordo. Non è nulla di simile a una semplice “gita” o “viaggio di istruzione”. Salire su quel “treno”, entrare a far parte di quella comunità, è piuttosto, per tutti noi, docenti e alunni, un gesto di resistenza e di testimonianza. Un pellegrinaggio laico, una commemorazione fortemente “religiosa”, in quanto capace di muovere i sentimenti più profondi, di interrogarci sulla dismisura, su ciò che di infinitamente abissale può celarsi nel cuore dell’uomo. Quell’abisso in cui, come scriveva Dostoevskij, Dio e Satana sono costantemente in lotta tra loro, senza che uno possa mai dire di aver definitivamente sconfitto l’altro. E senza poter mai veramente conoscere il fondo di quell’abisso: il confine sempre infinito, inattingibile, nel bene e nel male.

Non mandate i figli in gita ai campi di sterminio. Lì si va in pellegrinaggio. Sono posti da visitare con gli occhi bassi, meglio in inverno con vestiti leggeri, senza mangiare il giorno prima, avendo fame per qualche ora

Liliana Segre

Scrive Maria Lucia: «Quando il viaggio ci è stato proposto, non avevo ancora raggiunto la consapevolezza acquisita dopo aver affrontato le prime tappe di questo percorso. Non mi riferisco alla consapevolezza dell’evento storico, perché tutti i libri di storia affrontano l’argomento, tutti i film riflettono l’orrore di ciò che è stato e tutti noi abbiamo dunque la possibilità di possedere un’ampia conoscenza di questo tragico episodio. Ma è solo visitando i luoghi in cui tutto è avvenuto, che realizzi concretamente ciò per cui, fino a quel momento, ti eri dispiaciuto e magari anche commosso, ma con una certa distanza. Distanza infranta nel momento in cui ad un passo da te hai le testimonianze di ciò che avevi solo potuto immaginare…

Come potrebbe non far commuovere un disegno realizzato da un bambino innocente, che ritrae ciò che vive, una realtà della quale è succube e dalla quale non può sfuggire? O ancora, come potrebbe non smuovere nulla in te stesso, un luogo in cui ad una cifra immaginabile di gente è stata rubata la dignità? Il Treno della memoria è stato un viaggio edificante, sia dal punto di vista della riflessione a livello personale sia dal punto di vista della socializzazione e del confronto con altra gente. Un’esperienza dai mille risvolti, che difficilmente dimenticherò».


L’esperienza è stata certamente dura per molti di loro e di noi. Una scelta esserci, partecipare: la scelta di volersi mettere alla prova, attraversando, dentro di sé, il confronto con un male forse mai del tutto “banale”, perché assolutamente smisurato, inimmaginabile.

«Il Treno della Memoria è stata un’esperienza che mi ha fatto molto riflettere. Riflettere sull’atrocità del genere umano, sulla cattiveria infinita degli uomini. Mi ha fatto capire che dobbiamo essere più tolleranti nei confronti dei “diversi” (che poi tanto diversi non sono), ma anche più intolleranti affinché questo orrore non possa ripetersi mai più. Più che un viaggio attraverso l’Europa alla scoperta dei luoghi del genocidio più grande della storia, è stato un viaggio dentro me stessa: avverto che qualcosa sta cambiando, mi sento quasi “responsabile”, partecipante attiva di questa sorta di Resistenza contro ogni tipo di ghettizzazione rivolta indistintamente a tutti gli esseri umani perché, citando Primo Levi, “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”»: così scrive Daphne.

E quel viaggio dentro di sé ha lasciato in tutti tracce indelebili, che segnano nel profondo. Che portano alla commozione, alle lacrime, ma anche a far sentire la rabbia di chi non può tollerare che ciò sia avvenuto. Tanti film, pagine di storia, documentari. Eppure nulla può veramente restituire l’impatto impensabile di una tale esperienza.

C'è Domenico, che scrive: «Ho provato a capire cosa riuscivano a provare quelle povere persone in quel momento, da quando venivano deportati nei ghetti fino all’ultimo momento in cui sono stati deportati nei campi di concentramento e di sterminio». O Antonio: «Visitare i campi di concentramento e di sterminio di Terezin, Auschwitz e Birkenau è stata un'esperienza che i libri non ci raccontano, o che raccontano in parte tralasciando i fatti più crudeli che un uomo può fare ad un altro uomo, ma che io ho percepito attraverso gli occhi, e stando molto attento alle parole della guida che mi ha permesso di poter “immaginare” quello che hanno provato in questi luoghi le persone deportate».

Quel sentire di essere veramente lì, di calpestare quei luoghi, quegli spazi, che sono stati teatro dell’orrore assoluto. Allora si capisce, finalmente, il senso di tanto interrogarsi, nella letteratura e nella filosofia, sulla possibilità e sulla necessità di testimoniare in parole ciò che rimane comunque indescrivibile.

Monica: «Camminavamo in quell’enorme campo di Birkenau. Faceva freddo, ci lamentavamo tutti e questo ci ha fatto ancora più riflettere su come potevano soffrire quegli uomini, quelle donne, quei bambini che arrivarono in quei campi e non sapevano ciò che gli spettava. Molti di loro, già dopo 50 minuti che scesero da quel treno, erano scomparsi! E la restante parte era costretta a soffrire, a lavorare, pensando forse di riuscirsi a salvare ma non fu così. Oltre 1.300.000 furono i deportati, e più di 1.100.000 persero la vita. Per quanto ci sforzavamo di immedesimarci in loro, non era semplice, era inimmaginabile ciò che è successo 75 anni fa».

È proprio camminando in quell’enormità che anche io, dopo tanta “filosofia”, ho finalmente capito lo scandalo che le parole di Hannah Arendt hanno inevitabilmente destato, in chi rifiutava di veder in qualche modo ridimensionata, in un’analisi pur così lucida e spietata, ciò che portava piuttosto tanti altri, come Hans Jonas, ad interrogarsi sul “concetto di Dio dopo Auschwitz”. Dice Marika: «Tra il campo di Auschwitz e di Birkenau quello che mi ha colpito di più è stato proprio quest’ultimo in quanto rivolgendo lo sguardo in qualsiasi punto non si riusciva a vedere la fine di questa immensa distesa. È proprio lì che ho sentito sul mio corpo la sofferenza che avrebbero potuto provare tutte quelle persone ad affrontare quei kilometri a piedi, nudi, denutriti e costretti a lavorare al freddo e al gelo. Mai avrei immaginato tutto ciò, leggerli sui libri non ti da le stesse emozioni quanto viverle di persona camminando sullo stesso terreno dove 75 anni fa camminavano migliaia di persone senza nessuna speranza di ritornare nelle loro case e soprattutto dalle loro famiglie».

È proprio camminando in quell’enormità che anche io, dopo tanta “filosofia”, ho finalmente capito lo scandalo che le parole di Hannah Arendt hanno inevitabilmente destato, in chi rifiutava di veder in qualche modo ridimensionata, in un’analisi pur così lucida e spietata, ciò che portava piuttosto tanti altri, come Hans Jonas, ad interrogarsi sul “concetto di Dio dopo Auschwitz”.

Massimo Iiritano

Sono loro che parlano. Quei giovani di cui sappiamo tanto dir male, quelli che con estrema leggerezza giudichiamo superficiali e banali. Osservandoli, di tanto in tanto mi chiedevo se fosse giusto averli portati lì, sottoporli a questa immersione in un passato, in una storia, che pure oramai non gli appartiene; della quale non dovrebbero portare colpa e peso alcuno. Anche questo sarebbe un loro diritto: diritto alla liberazione da un passato che schiaccia, deprime, inquieta. Eppure, non è così. Si tratta nonostante tutto, purtroppo, di un attraversamento quanto mai necessario, oggi. E sono loro stessi a spiegarci il perché.

Scrive Diana: «Questi dieci giorni sono stati, per me, molto significativi, mi hanno aiutata ad adattarmi e a non dare più per scontato tutte quelle piccole cose che a noi possono sembrare banali, come la fortuna di possedere una casa riscaldata, come dice Primo Levi in “Se questo è un uomo”, la possibilità di avere un pasto caldo e di trovare volti amici. La visita al campo di concentramento di Auschwitz e Birkenau mi ha fatto capire fino a che punto può arrivare la cattiveria umana, perché non è accettabile che un uomo arrivi a togliere il nome e la dignità ad un suo fratello».

E Giada: «Giudicare persone per la loro religione, usanze… la trovo una cosa orribile. Noi uomini siamo tutti uguali, e questo viaggio ci ha permesso di capirlo appieno. È stato un grande errore, quindi ritengo che ricordare questo orribile episodio sia importante per riflettere affinché non si ripeta più».

I ragazzi che ho citato sono una delegazione dell’IIS Guarasci-Calabretta di Soverato (CZ), composta di 30 ragazzi e ragazze delle classi quinte. Accompagnatai dai loro docenti hanno condiviso questa straordinaria esperienza formativa con alcune classi provenienti dalla Puglia e dalla Campania, sotto la guida degli educatori e dei formatori dell’associazione. Il viaggio, lungo e faticoso, è stata un’opportunità unica per la condivisione di esperienze, sensibilità, punti di vista, prima e durante la visita emotivamente assai impegnativa dei luoghi della deportazione e dello sterminio. In particolare, i ragazzi si sono recati come “tappa intermedia” a Praga, dove hanno visitato il campo di Terezìn, noto per la commovente testimonianza dei tanti bambini e degli artisti lì rinchiusi, prima della deportazione nei campi di sterminio. Quindi, arrivati a Cracovia, hanno potuto conoscere, sempre condotti da guide sensibili e preparate, il quartiere ebraico e il ghetto di Cracovia, città popolata prima del 1939 da circa 70.000 ebrei, e la fabbrica di Schindler, sede di un museo interattivo particolarmente efficace. Infine la giornata più dura è stata senza dubbio quella trascorsa tra Auschwitz e Birkenau, dove i ragazzi hanno potuto attraversare i luoghi della desolazione e del terrore, dove si tocca con mano e si avverte sulla pelle tutta la dismisura del male, la sua incomprensibile gratuità, i suoi eccessi impensabili.

Così come era avvenuto nella visita alla città ceca di Lidice, completamente distrutta, rasa al suolo, cancellata dalla carta geografica, per una terribile rappresaglia ordinata da Hitler in risposta ad un attentato. Anche qui centinaia di abitanti, giovani, anziani e 99 bambini, tutti condotti allo stermino nelle camere a gas di Auschwitz e Birkenau.

La delegazione del Calabretta di Soverato ha partecipato a questa tappa del “Treno della memoria” insieme ai ragazzi provenienti dal Liceo Siciliani e dal Liceo Galluppi di Catanzaro, con i quali ha condiviso anche i momenti formativi precedenti alla partenza e l’organizzazione.

Si tratta di un’iniziativa la cui partecipazione cresce. Ed è questo un segno di grande speranza. Proprio perché, come diceva Liliana Segre, non si tratta di “gita” ma di un “pellegrinaggio” ad occhi bassi, raggiunto attraverso un faticoso viaggio in pullman, che ha visto momenti di difficoltà e di necessario adattamento, di fatica, di coabitazione, negli ostelli di Praga Cracovia Berlino e Budapest. Si sono cementate amicizie, simpatie, solidarietà. Come negli straordinari momenti di condivisione in plenaria. Dinanzi alla visione del film “La rosa bianca” e poi nella restituzione conclusiva, quando sono stati i loro interventi a commuoverci, quanto e forse più di ciò che avevamo visto e vissuto fin qui. Perché se grande è lo sforzo e la frustrazione di noi docenti nel nostro quotidiano “viaggio contro la paura”, straordinario è ciò che proprio in questi momenti e solo da loro, dai nostri alunni, ci viene donato.

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