Cultura

Possiamo uscire dalla trappola della società signorile di massa?

L’Italia di oggi, come appare dall'ultimo libro di Luca Ricolfi, è un paese ineguale, iniquo, scosso solamente dal “sogno della merce”, consumato e consumante, dedito all’evasione e allo svago, al consumo di stupefacenti e al gioco d’azzardo. Un fotografia impietosa, che merita attenzione

di Pietro Piro

L’opulenza nella stagnazione

Una lettura attenta del libro del sociologo Luca Ricolfi, La società signorile di massa (La nave di Teseo, Milano 2019), non può che suscitare preoccupazione e malessere.

La citazione iniziale di Ralf Dahrendorf: «La società centrata sul lavoro è morta, ma non sappiamo come seppellirla» è rivelatrice di una enorme difficoltà. Quella di chi non sa come affrontare il futuro perché non riesce a ereditare dal passato (il morto) la giusta eredità (il lavoro-fatica) e, allo stesso tempo, non è capace di pensarsi al futuro perché il passato è una presenza inquietante che non si riesce ad accompagnare definitivamente nel regno dei trapassati (il seppellimento).

Per Ricolfi l’Italia si è trasformata in un esemplare unico al mondo di società che consuma rendite non provenienti direttamente dal lavoro, godendo di un benessere signorile e producendo stagnazione economica, civile e culturale.

Una società in cui il numero dei cittadini che non lavora ha superato il numero dei cittadini che lavora, in cui il consumo opulento è diventato di massa e in cui l’economia è entrata in un regime di decrescita (infelice).

Ricolfi descrive – con forza di numeri – una società edonistica, individualistica, che vive completamente al di sopra delle proprie possibilità, in cui il lavoro è praticato solo da una ristretta minoranza, mentre la maggioranza campa di rendite, erodendo e consumando i beni accumulati da generazioni operose.

I tre pilastri

La società signorile di massa si basa su tre pilastri: il primo, è la ricchezza accumulata dalle generazioni del dopoguerra che rappresenta il serbatoio al quale attualmente si attinge senza che si provveda a rigenerarlo. Il secondo è la distruzione del sistema scolastico con l’abbassamento dei livelli d’istruzione e la perdita di potere reale dei titoli di studio come strumenti di mobilità sociale. Terzo – e certamente il pilastro più vergognoso – la formazione di una struttura paraschiavistica in cui una parte della popolazione residente (soprattutto stranieri) si trova collocata in ruoli servili o di ipersfruttamento, perlopiù a beneficio d’italiani (stagionali nelle campagne, prostitute, personale di servizio, dipendenti in nero).

L’Italia di oggi è dunque un paese ineguale, iniquo, scosso solamente dal “sogno della merce”, consumato e consumante, dedito all’evasione e allo svago, al consumo di stupefacenti e al gioco d’azzardo ubiquitario.

Un paese di signori ignoranti e nullafacenti assetati di riconoscimento sociale del proprio benessere. Una società «avversa alle regole, anarchica, scarsamente sensibile al richiamo dell’interesse collettivo» (p. 191). In definitiva «un paese che non studia, non legge e gioca» (p. 203).

I giorni contati

Quanto riusciremo a sopravvivere in questa condizione paradossale di opulenza inoperosa? Secondo Ricolfi: «l’equilibrio su cui la società signorile di massa si regge, fatto di benessere, non-lavoro e stagnazione è tanto apparente quanto transitorio. Apparente, perché le ombre della società signorile di massa ci accompagnano: una società che spende più nel gioco d’azzardo che nella sanità pubblica (per citare una sola delle nostre ombre), già solo per questo ha qualcosa che non va. Transitorio perché, se non facciamo nulla il processo di “argentinizzazione lenta” sarà inevitabile, e tanto più pericoloso proprio perché lento: chi sprofonda poco per volta, difficilmente si accorge che sta sprofondando» (p. 220).

Quella del nostro paese è dunque una condizione di estremo pericolo perché basata più sull’inerzia e sul consumo piuttosto che sull’operosità e il bene comune.

Ricolfi è stato molto abile nel riuscire a fare sintesi di molti elementi noti ma separati, riuscendo a fornire una definizione che credo possa suscitare un ampio dibattito nelle scienze sociali. Tuttavia, non vi sono in questa ricerca suggerimenti diretti per chi ogni giorno cerca di guardare con speranza al futuro. Sebbene definisca la nostra attuale condizione sociale italiana «un prodotto a termine con una scadenza sconosciuta nel suo DNA» (p. 221) non indica nessun percorso concreto per uscire da questa palude. Non credo che manchino le capacità a chi ha saputo tanto lucidamente fare una diagnosi così precisa di un divenire spesso magmatico e inafferrabile. Sospetto che si tratti di una scelta consapevole. Ricolfi non vuole offrire nessuna ricetta nei confronti di una società che sembra sempre di più bastare a sé stessa. In questo consiste il più grande limite di questo libro. Che è utile per fare diagnosi ma non è in grado di offrire nessuna terapia.

Quando una massa, in questo senso monda di cuore, si muoverà alla redenzione del mondo, scardinerà tutti i falsi presupposti dell’attuale civiltà, perché di fronte a quella essa vivrà, l’umanità si scoprirà umiliata e depressa, tanto da lasciarsi travolgere nella nuova come per invincibile istinto. E da quale istinto? Dal più profondo e dal più potente: il bisogno di vivere, il bisogno di essere

Don Zeno, L’uomo è diverso


Uscire dalla fase sperimentale e diventare modello

Chi lavora per il cambiamento, cercando d’introdurre elementi di riscatto soprattutto nelle periferie dell’esistenza, cerca esempi positivi che possano essere pietre di scandalo sulle autostrade dell’indifferenza e del disimpegno. Dentro la società signorile di massa – così ben analizzata da Ricolfi – c’è anche una società solidale e generativa, che in tutto il paese sta cercando di essere laboriosa e partecipativa.

Una società che non vive di rendite e non è dedita al consumismo sfrenato ma che costruisce ogni giorno alternative concrete alla povertà, all’indifferenza, alla perdita di memoria. Pare che nel libro di Ricolfi questa parte della società italiana non abbia nessun peso e nessun potere d’influenzare il cambiamento.

Io credo invece che i giochi sul futuro del nostro paese si facciano proprio sul piano della solidarietà e dell’impegno civile. Nel mondo della solidarietà, della cooperazione, dell’innovazione sociale, ci sono già tutti gli elementi di novità e di trasformazione sociale di cui l’Italia avrebbe bisogno per diventare un paese migliore. Occorre però che dalla solidarietà si passi ai progetti politici su larga scala e che si esca dalla logica della sperimentazione sociale per riuscire a diventare norma e prassi consolidata.

Occorre chiedersi con lucido distacco se vietare il gioco d’azzardo sia proprio impossibile. Sé costruire infrastrutture solide e avanzate che permettano una migliore connessione tra Nord e Sud del paese sia solo utopia. Sé pagare meglio gli insegnanti di ogni ordine e grado e costruire scuole belle e sicure sia solo una fantasia bizzarra. Sé costruire biblioteche pubbliche in ogni quartiere sia una forma di pazzia. Sono tutte scelte praticabili ma politicamente poco attraenti forse.

Le diagnosi, come quelle di Ricolfi, per quanto infauste, sono utili se aprono alla possibilità di nuove strade da percorrere. Sé sono invece sono un canto dell’abisso, rischiano di mortificare quel poco di slancio profetico di cui sono portatrici iniziative in piccola scala.

C’è qualcosa di utile per l’intera società italiana nei modelli sociali proposti da Rondine Cittadella della Pace, Nomadelfia, SERMIG,Sant’Egidio, San Patrignano, Libera, Capodarco e da tutte le piccole e grandi comunità laiche e religiose (che qui non posso nominare ma che meritano la massima attenzione) che ogni giorno propongono un’alternativa alla società signorile di massa agendo come punto di riferimento essenziale spesso in territori difficili?

Si può prendere qualcosa di buono da questi “esperimenti” e provare a influenzare la politica prima e la società tutta poi? Oppure, devono restare solo degli esempi – celebrati o meno – di alternative tanto belle quanto impraticabili dalla massa? I tempi non sono forse maturi per l’emergere di una proposta credibile che possa essere semplice e praticabile da chi non trova altra via d’uscita che lo stordimento del consumo coatto?

La società signorile di massa è forse uno degli esempi più orrendi di crescita senza sviluppo, di ricchezza senza cultura, di consumo senza finalità. Chi scrive è convinto che possiamo ancora scegliere. Occorre guardare agli esempi viventi di un’alternativa possibile.

Ma purtroppo, nelle vicende umane spesso accade, che per scoprire ciò che ci è vicino, occorra prima toccare il fondo. È noi sembriamo tutti attratti da un fondo luccicante e plastificato che un tempo chiamavamo abisso.

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.