Mondo
Omicidio di Vasto, né vendetta né giustizia. Ma solo tragedia
Tutti i media danno ampio spazio all'omicidio di un giovane ventenne che mesi prima aveva investito la moglie del suo assassino. Per capire come si possa arrivare ad un gesto tanto diperato abbiamo chiesto al sociologo Marco Revelli. «In questa vicenda si vede la perdita della dimensione comunitaria e delle relazioni»
Il primo luglio 2016 Roberta Smargiassi stava attraversando l’incrocio tra Corso Mazzini e Via Giulio Cesare in sella al suo Yamaha Sh650. La Fiat Punto, guidata dal ventenne Italo D’Elisa non rispetta il rosso e travolge la travolge scaraventandola contro il semaforo che regola l’incrocio. I carabinieri e i vigili del Fuoco del comando di Vasto erano intervenuti sul posto, insieme ai medici del 118 che avevano soccorso la 34enne. Uno sforzo inutile.
La 34enne morì poco dopo l’arrivo in ospedale. Così inizia il dramma di Fabio Di Lello, ex calciatore e marito di Giorgia.
Dopo sette mesi di attesa per una giustizia che, a suo dire, impiegava troppo tempo, Di Lello infatti ieri si è armato di pistola e con quattro colpi ha ucciso Italo D’Elia all’uscita da un locale. Dopodiché è andato al cimitero e ha lasciato sulla tomba della moglie l’arma consegnandosi subito dopo ai carabinieri. Più che un fatto di cronaca sembra uno dei racconti di Giorgio Scerbanenco con un’aggiunta di patos shakespeariano. Ma una vicenda come questa, che racconta di una disperazione sorda e assoluta, cosa ci dice della nostra società e del nostro mondo? Per provare a capirlo abbiamo chiesto al sociologo Marco Revelli.
Si parla di questa vicenda mettendo spesso l’accento sul tema della “giustizia fai da te. Ma il cuore della vicenda è semmai in una reazione di totale disperazione nella perdita del coniuge da parte di Di Lello…
Qui non c’entra né la giustizia né la vendetta. È la dimensione delle tragedia con cui non siamo più capaci di misurarci. Con la tragedia non valgono criteri giuridici né politici. Quella che si è consumata è una tragedia su due versanti, perché le tragedie non hanno mai un solo protagonista. Vittima e carnefice vengono entrambi travolti dalla catastrofe dell’evento. In entrambi i casi le vittime sono diventati carnefici. Ed è non solo impietoso andare a cercare le ragioni dell’uno e dell’altro, perché non ci sono ragioni in questa vicenda. C’è la dimensione totale delle disperazione. Disperazione di chi ha subito la prima perdita. Perdita totale e assoluta in cui non c’è elaborazione del lutto e del senso di perdita che diventa volontà di annientamento dell’altro e di sé. Questa è l’unica cifra con cui si può leggere quello che è avvenuto. Esattamente come lo strazio del padre del giovane ucciso con questa sua solitudine assoluta. Il Paese che si era stretto attorno al marito della prima vittima diventa immagine per i famigliari della seconda vittima diventa mandante di questa uccisione in una catena senza fine e che ha come unica cifra una tragedia nel suo senso originale. Una successione di eventi che annientano tutti i protagonisti.
Merton scriveva che “Nessun uomo è un’isola” che ciascuno è «una parte di un tutto». Oggi invece sembra che si cerchi e si tenda sempre più all’essere isole. La tragedia avviene se la nostra piccola isola viene sconvolta da qualche avvenimento…
Non c’è dubbio che in questa vicenda si vede la perdita della dimensione comunitaria e delle relazioni. Quelli che si confrontano sono mondi isolati all’interno dei quali ogni fine è la fine del mondo. E come ogni fine del mondo trascina con sé il senso di morte il tahantos l’annientamento. Quella perdita del mondo può essere in qualche misura non recuperata ma risolta con l’annientamento di un altro mondo che è poi annientamento di sé stesso. È la caduta delle reti ampie di legame e la riduzione del legame all’individuo o tuttalpiù al legame famigliare. Che poi è quello che permette di elaborare i lutti. Nessuno può elaborare la perdita del proprio mondo se non esistono altri mondi.
In questo caso poi, stando alle ripetute manifestazioni (nella foto di copertina) che sono andate in scena per chiedere giustizia per la donna, queste reti in qualche modo c’erano. Il problema è che non funzionano più?
Ho visto anche le immagini. Erano centinaia di persone quelle che part3eciparono ala fiaccolata per la vittima. I quali evidentemente però, visto l’esito non hanno riempito quel vuoto. Per certi versi si può immaginare, nell’immagine dell’altra vittima, di colui che aveva causato l’incidente, assumo l’immagine dei mandanti dell’atto di vendetta. Qui non solo manca la giustizia pubblica che probabilmente è stata lenta e inneficiente. Ma il problema non è questo. Non si uccide qualcuno perché il tribunale ritarda nei suoi tempi. Si uccide l’altro perché si ha un gigantesco vuoto dentro. Che la comunità non è riuscita a riempire
Cosa significa riempire il vuoto?
Significa, anche e lo so che è una cosa durissima, calarsi nei panni di tutti, compreso quelli del responsabile. Ci sono stati dei momenti in cui culturalmente questo è avvenuto. Faccio un esempio apparentemente strampalato. Dopo l’assassinio di Vittorio Bachelet, da parte delle BR, la famiglia, non dico che perdonò, ma aprì un discorso di soluzione dell’odio. Di riduzione anziché ampliamento del bacino dell’odio. Questo lo si può fare sulla base di un patrimonio culturale condiviso molto forte che educhi a governare il sistema di relazioni tra uomini, tra persone. Abbiamo un deficit di umanità.
Cosa serve per poter ravvivare questa umanità?
Serve una riflessione perché rischiamo di tornare al meccanismo distruttivo della faida. La fine della faida si ha quando la polis afferma il proprio potere su tutti. Un potere pubblico che si incarica di amministrare la giustizia. Ma anche quando una comunità elabora un sistema culturale di gestione delle relazioni che non siano all’insegna dell’uso bruto della violenza. Purtroppo viviamo un tempo di regressione pre civile. Nelle piccole cose come in quelle grandi. Basti pensare agli Stati Uniti.
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