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Il Paese dei Neet: nessuno in Europa ne conta più dell’Italia

Mentre la politica si occupa d’altro e nel frattempo riduce i fondi alla formazione duale, il nostro Paese continua a svettare nella classifica dei ragazzi che non studiano e non lavorano, che sono 2,1 milioni. Uno scandalo cui dobbiamo dire basta e a cui abbiamo dedicato il numero del mensile di dicembre in distribuzione da venerdì

di Anna Spena

«Ne ho conosciuti tanti di Neet. Cosa ne sarà di Valerio, che non ne vuole sapere di continuare ad annoiarsi sui banchi di scuola ma rifiuta anche di andare a lavorare nella macelleria del padre? Stiamo parlando di un ragazzo sveglio, uno di quelli che una volta sarebbero saliti in sella al destriero diretti contro il nemico senza paura di farsi ammazzare: ti guarda e gli si accendono gli occhi, uno che capisce tutto al volo e forse proprio per questo, paradossalmente, rifiuta il sistema di valutazione che di fatto l’ha già condannato alla serie cadetta.


Come finirà Francesco che a venticinque anni sta tutto il giorno a casa a picchiettare sui tasti del computer alla ricerca di qualche lavoretto? I suoi genitori, preoccupati, non sanno cosa fare. Alle dieci di mattina, ancora in pigiama, inzuppa il biscotto nel latte come faceva da bambino. Eppure io mi ricordo che alle spiegazioni era attento, non saltava nemmeno una riga leggendo Jack London, prendeva persino gli appunti sul quaderno coi disegni dei samurai, non avevo mai l’impressione di perderlo, così carico d’energia vitale, pronto alla battuta, ironico, scaltro, senza titubanze». Per raccontare una delle tendenze più tristi degli ultimi anni ci affidiamo alle parole di chi i giovani li conosce bene perché li vive ogni giorno. Lo scrittore Eraldo Affinati, fondatore della scuola Penny Wirton, ne restituisce un’immagine inedita che ribalta quel luogo comune molto italiano de “sono tutti sfaticati” e mette al centro la persona.

«I giovani di oggi», continua Affinati, «i vostri figli vi stanno ponendo domande a cui voi non potete né sapete rispondere. Cose grosse: riguardano il senso del nostro stare al mondo, i valori che abbiamo deciso di perseguire. I dati generali accendono una luce rossa ma non rivelano granché in quanto ogni situazione è diversa».

Dove nascono i Neet
Il termine Neet è un’invenzione piuttosto recente. Acronimo di Not in Education, Employment or Training è stato utilizzato per la prima volta nel 1999 in un documento del governo britannico. Oggi si usa comunemente per indicare chi non è impegnato nello studio, né nel lavoro e neanche nella formazione. Partiamo quindi dal primo dato, sintetico e allarmante: nel 2018 in Italia, i Neet nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 29 anni sono pari a 2.116.000 e rappresentano il 23,4% del totale dei giovani della stessa età presenti sul territorio. Nel 47% dei casi i ragazzi hanno tra i 25 e i 29 anni, nel38% i ragazzi hanno tra i 20 e i 24anni e il restante 15% è nella forchetta 15-19 anni. L’Italia è la prima tra i Paesi europei per presenza di Neet, dove la media attuale è del 12,9%. Questi dati, elaborazioni Istat e Eurostat, sono stati raccolti nel report di Unicef “Il silenzio dei Neet – Giovani in Bilico tra rinuncia e desiderio” nata dal progetto Neet Equity selezionato dal Dipartimento per le Politiche Giovanili e il Servizio Civile Universale nell’ambito dell’Avviso “Prevenzione e contrasto al disagio giovanile”. «Essere Neet», dice Virginia Meo coordinatrice del progetto Neet Equity, «è, prima di tutto, una condizione di disagio ed esclusione sociale, che priva i ragazzi e le ragazze di una possibilità di futuro, lasciandoli indietro. I giovani, invece, hanno le idee e le energie per creare un mondo migliore per sé stessi (e per tutti), se solo si dà loro l’opportunità di farlo. Spesso, infatti, la condizione di Neet è determinata da disuguaglianze che riducono le possibilità di rompere i meccanismi della povertà e dell’esclusione sociale; e da contesti — familiari, culturali, economici, sociali — che non investono adeguatamente sulle potenzialità dei ragazzi e sul loro futuro. Quindi, si tratta della riproposizione di uno stato sociale ereditato dalla famiglia di appartenenza e dal contesto sociale in cui si vive, ma anche di una sfiducia nelle istituzioni e nel mondo del lavoro nata da una certa comunicazione e narrazione della realtà che persino studiare non serva a niente. Il fenomeno altro non è che un elemento di disagio nel Paese. E il fatto che i ragazzi non abbiano occasioni per potersi mettere in gioco impoverisce il Paese stesso».

Un fenomeno made in Italy?
Già nei primi anni di studio del fenomeno, l’Italia presentava livelli più elevati della media europea, 18,8% nel 2007 contro 13,2% Ue-28. Il divario è poi aumentato durante gli anni della crisi fino al 2014 arrivando al 26,2% per poi cominciare a diminuire, 25,7% nel 2015, 24,3% nel 2016, 24,1% nel 2017. Stando ai dati Istat 2018, le regioni nelle quali si registra una maggiore presenza di Neet sono: Sicilia (con un’incidenza del 38,6%), Calabria (incidenza del 36,2%), Campania (incidenza del 35,9%), Puglia (incidenza 30,5%) e Sardegna (incidenza 27,5%). «Ma», continua Annarita Sacco che ha redatto e curato la ricerca di Unicef, «quello dei Neet è un fenomeno complesso che lega e mette in relazione le falle della società. Anche la parola disimpegnati non deve subito farci pensare a persone che nella vita “non fanno niente” altrimenti si rischia di essere riduttivi e si etichettano i ragazzi».

«Dai dati», continua Sacco, «emerge anche che la condizione di Neet si divide quasi equamente tra donne (52%) e uomini (48%). E per quanto riguarda il grado di istruzione, Il 49% dei giovani ha conseguito il diploma di scuola secondaria superiore, il 40% è costituito da soggetti con livelli di istruzione più bassi, mentre il restante 11% corrisponde a quello dei laureati».

«L’Italia», interviene Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e Statistica sociale, all’Università Cattolica di Milano, coordinatore del “Rapporto giovani”, Istituto Toniolo e autore del libro Neet Giovani che non studiano e non lavorano (Vita e Pensiero, 2015), «ha il triste record di Neet in Europa. E i motivi sono vari. Il primo ri- guarda il fatto che nel nostro Paese abbiamo più giovani con formazione debole, quindi meno attrezzati con competenze utili per la vita e il mondo del lavoro nel XXI secolo. Presentiamo infatti un tasso di dispersione scolasti- ca tra i più elevati in Europa e una percentuale di giovani che arrivano a laurearsi tra le più basse. Il dato sugli abbandoni precoci è di 5 punti superiore alla media europea: 17% contro 12% dell’Ue-28».

Le generazioni che si sono affacciate all’età adulta nel nuovo millennio nel nostro Paese si sono trovate a dover sempre più contare sul tradizionale aiuto privato dei genitori, ma con inadeguato investimento pubblico rispetto ai coetanei delle altre economie avanzate. «La causa vera», continua Rosina, «è quindi la questione non risolta non tanto del rapporto tra giovani e lavoro, ma ancora prima di quale ruolo assegnare alle nuove generazioni nei processi di sviluppo competitivo del Paese. Spostare le nuove generazioni dalla difesa all’attacco, ovvero dalla condizione di soggetti da proteggere a quella di cittadini attivi nel conquistare un futuro di miglior benessere, significa imboccare un sentiero virtuoso di crescita che produce ricadute positive per tutti. Più si rimane nella condizione di Neet e più si sprofonda, come molti studi confermano, in una spirale di deterioramento di competenze e demotivazione particolarmente corrosivo».

Il fatto che la quota di Neet si sia potuta accrescere in modo così abnorme è legato anche a due specificità italiane, senza le quali non si spiegherebbe come tale condizione non sia esplosa come dramma sociale: «la prima», spiega Rosina, «è un modello culturale che rende accettabile una lunga dipendenza dei figli adulti dai genitori, la seconda è l’ampia quota di economia sommersa all’interno della quale prolifera il lavoro in nero». Quando si allude al fatto che la generazione Neet non fa nulla «si commette un errore. Perché abbandono scolastico da un lato e lavoro in nero dall’altro sono due fattori complementari», aggiunge il ricercatore Iref Gianfranco Zucca.

Fuori dal radar
Possibile allora che non si sia fatto niente in Italia? «Indubbiamente l’assenza di politiche giovanili negli ultimi anni non ha favorito l’inversione di rotta», dice Domenico De Maio, direttore Generale dell’Agenzia Giovani. L’ammontare del fondo per le politiche giovanili, infatti, dal 2013 al 2018, è stato pari a 40,5 milioni. Nel 2019 lo stanziamento è stato incrementato di 30 milioni di euro annui. «Ma», continua De Maio, «non sono abbastanza. Basti pensare che prima del governo Monti il fondo raggiungeva 100 milioni l’anno». L’Agenzia Giovani, che nel 2020 gestirà 26 milioni di euro tra progetti Erasmus e Corpo Europeo di Solidarietà, strumento che offre ai giovani opportunità di lavoro o di volontariato, propone iniziative che esulano da canali classici. «I Neet», continua De Maio, «non possiamo cercarli nei centri per l’impiego o nella scuola. Perché loro sono giovani fuori dal radar. La domanda che dobbiamo farci è: “Ma i ragazzi che non partecipano come li aggreghiamo? In Italia c’è un problema di spazi di partecipazione fisici e questi si creano investendo sull’associazionismo».

E Garanzia Giovani?
Un tentativo preciso per contenere il fenomeno Neet in Italia è stato fatto. Stiamo parlando di Garanzia Giovani. «Il programma governativo», spiega Giuliano Poletti, che all’epoca della misura ricopriva la carica di ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, «è nato sulla base di Youth Guarantee, una misura europea che prevede dei finanziamenti per i Paesi membri con tassi di disoccupazione giovanile superiori al 25% , da investire in politiche attive di orientamento, istruzione, formazione e inserimento al lavoro».

La cifra stanziata è di 1,5 miliardi di euro fino al 2020. Ma la misura fino ad oggi ha funzionato? «I giovani», continua Poletti, «si registravano al portale che poi li avrebbe messi in relazione con i centri dell’impiego del territorio. C’è stata sicuramente una novità positiva perché è stata la vera e prima misura pensata per i Neet, ma ci siamo scontra- ti con il limite dei centri dell’impiego che in Italia sono ancora troppo deboli. Quindi credo che la misura di Garanzia Giovani abbia funzionato solo parzialmente, e questo si evince anche dal dato dei Neet presenti in Italia che è evidentemente ancora ad un livello troppo alto». I numeri di Garanzia Giovani, invece, sono bassi: stando ai dati dell’Anpal, Agenzia nazionale politiche attive lavoro, sono stati oltre 1,4 milioni gli iscritti al portale. Degli oltre 640mila che hanno avviato un percorso di reinserimento in 595.685 hanno concluso l’intervento di politica attiva e di questi poco più di 300mila, il 52,5%, hanno trovato un lavoro vero e proprio. Un lavoro che in oltre un caso su tre, 39,5%, è a tempo indeterminato, nel 36,8% coincide con l’apprendistato e il 20,1% è a tempo determinato. Quindi chi ha trovato un’occupazione rappresenta poco più di un quarto dei registrati. «L’idea di base della misura», dice Rosina, «era quella di non lasciare i giovani abbandonati a se stessi a formare lunghe file davanti ai cancelli di entrata nel mercato del lavoro, ma di aiutarli a introdursi nel modo migliore». La misura non ha funzionato, prima di tutto per l’impostazione sbagliata che sta alla base delle politiche sui giovani italiani…


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Nell'immagine di copertina un particolare di un'illustrazione di Ilaria Zanellato che ha curato la copertina di Vita di dicembre

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