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Precarietà, tessere di partito e cinghie di trasmissione

Ricostruire la democrazia nelle organizzazioni del terzo settore è un punto cruciale. Affinché non diventino un orpello nelle mani di una politica capace di orientare le proprie scelte solo a breve termine

di Marco Ehlardo

Non mi ha affatto sorpreso che, nell’inchiesta della procura di Caltagirone sul CARA (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) di Mineo, siano emerse testimonianze di lavoratori di quel Centro secondo i quali, per poter essere assunti, gli era stata “consigliata” l’iscrizione ad un partito.
Né che molte assunzioni, precarie, fossero avvenute in periodo pre-elettorale e fino alle elezioni. Né, tantomeno, che quel partito esprimesse, all’epoca, la guida del ministero che finanzia quella struttura (per una cifra di poco inferiore ai 100 milioni di euro). Quello che, nonostante non sia anch’esso sorprendente, dovrebbe far riflettere è che, nonostante tutti si siano affrettati a dire che la tessera di partito non fosse obbligatoria e dunque non ci fosse ricatto, la gran parte dei lavoratori di quella struttura, alla fine, quella tessera l’avessero presa.

Perché il ricatto in realtà c’è, ed è dovuto alle forme estremamente precarie dei contratti degli operatori; è ovvio che se il tuo contratto ha durata breve e vuoi sperare di rinnovarlo, ed hai capito come “funziona”, quella tessera alla fine devi prenderla. È una storia vecchia quella della stretta vicinanza tra una parte del terzo settore ed i partiti o i politici di riferimento; non ci voleva Mafia Capitale per venirne a conoscenza, non è bastata quell’inchiesta (di cui quest’ultima è un filone) per cambiare significativamente le cose.

Ci sono tanti esempi altrettanto rappresentativi del problema. Pensiamo alla continua osmosi tra partiti, istituzioni ed organizzazioni; quanti casi ci sono stati di dirigenti di associazioni e cooperative che divengono assessori, per poi tornare alle organizzazioni di provenienza? Nulla di illegale, certamente; né si può negare il diritto costituzionale di tutti i cittadini a fare politica e ad assumere incarichi politici. Ma in questo modo si finisce per confondere i ruoli di chi controlla e di chi deve essere controllato, di chi finanzia e di chi è finanziato, di chi affida servizi e di chi li gestisce. Per non parlare del fatto che un assessore nomina anche dirigenti comunali, che saranno gli stessi con cui, tornato dall’altra parte, tratterà di servizi e progetti da gestire. Un grande, nebbioso caos.

Sia chiaro, che il terzo settore sia un luogo in cui si fa politica è naturale, e sarebbe semmai innaturale il contrario. Tutti i settori organizzati della società fanno politica, specialmente quelli economici. Il terzo settore si può dire che la faccia al cubo. La fa per le sue attività di advocacy e lobbying positiva sui suoi temi; la fa perché si occupa sul campo di quei temi quotidianamente; la fa perché, troppo spesso, surroga l’incapacità (o la mancata volontà) dello Stato di occuparsi di quei temi.

Ma altra cosa è trasformare una parte del terzo settore in una “cinghia di trasmissione” dei partiti. Di queste cose, fino a poco più di un anno fa, non se ne poteva nemmeno parlare. Dopo, ci si aspettava un dibattito approfondito sul problema e sul che fare. Non mi risulta ci sia stato. Nemmeno la riforma del terzo settore ha sfiorato questo tema. Chi, come me, ne ragiona e ne scrive da prima di Mafia Capitale (il mio libro Terzo Settore in fondo lo scrissi anche per parlare di questi problemi, seppur in maniera ironica, ed il suo seguito prosegue nella stessa direzione) si è interrogato spesso sulle possibili soluzioni, ma il problema rimane che, se lo si vuole affrontare da un mero versante normativo, è difficile che chi è parte in causa del problema ne voglia davvero dare una soluzione.

La strada più diretta non può che essere, allora, un’autoregolamentazione del settore. Partendo, soprattutto, da noi operatori.

Bisogna innanzitutto ricostruire la democrazia nelle organizzazioni del terzo settore. Basta con i (grandi e piccoli) manager/padroni; va restituito potere alle strutture democratiche, nei quali la presenza dei lavoratori deve essere garantita e maggioritaria.

Bisogna, poi, contrastare il ricatto della precarietà. Dato che la politica, in questi anni, è andata sempre in direzione di una maggiore precarizzazione del lavoro, e che i sindacati tradizionali si disinteressano degli operatori del terzo settore (che e probabilmente perché, in quanto lavoratori precari, non possono versare quote fisse del proprio stipendio ai sindacati come i loro colleghi stabili), forse è giunto il momento che gli operatori creino un proprio sindacato. Dati i numeri (quasi un milione di collaboratori a vario titolo), avrebbe un potere contrattuale e politico enorme.

Sarebbe, poi, estremamente utile dotarsi di piattaforme online indipendenti che monitorino dal basso appalti, bandi e affidamenti, specialmente nei casi di osmosi tra partiti ed organizzazioni non profit a livello di amministrazioni locali. Infine, ci si dovrebbe attivare con una sorta di citizen journalism (giornalismo partecipativo), che tenga informati i cittadini su quanto accade quotidianamente sui territori, monitori l’efficacia dei servizi e dei progetti e raccolga, soprattutto, le opinioni dei destinatari di servizi e progetti, che sono quelli che più hanno il polso della situazione e vengono al momento del tutto ignorati.

Un programma utopico? Forse. Ma il terzo settore, alla fine, non dovrebbe essere anche un po’ il mondo dell’utopia?

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