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I macachi ed il problema della formazione
L’operatore sociale è un mestiere complesso, richiede un lungo periodo di esperienza ed una continua formazione. Richiede grandi capacità di gestire lo stress e di mediare i conflitti. Eppure è un mestiere poco riconosciuto, spesso visto più come un hobby che come una professione. E tutto ciò porta, a volte, ad affidare l’accoglienza dei migranti, ossia (piccolo dettaglio di cui a volte qualcuno si dimentica) di esseri umani, a personale non solo impreparato, ma addirittura niente affatto portato per questo lavoro
Conosco bene quanto sia difficile e stressante lavorare nel settore dell’accoglienza dei migranti. L’ho fatto per tantissimi anni. So anche come, a volte, ci siano dei migranti che ti portano all’esasperazione, con atteggiamenti e richieste strampalate.
Nel bailamme che è diventato, negli ultimi anni, il mondo dell’accoglienza dei migranti, uno dei punti più delicati è la selezione e la formazione degli operatori. Così come, spesso, l’accoglienza è affidata ad enti gestori privi della sia pur minima esperienza e competenza, a cascata gli stessi si affidano a personale che si trova nelle stesse condizioni di impreparazione.
A volte, per esempio e nel migliore dei casi, scelgono persone neolaureate, come se qualche anno di studio sui libri sia condizione sufficiente per avere una professionalità nel settore. Altre volte le assunzioni sono fatte senza alcuna selezione, prendendo semplicemente amici ed amici di amici.
L’operatore sociale è un mestiere complesso, richiede un lungo periodo di esperienza ed una continua formazione. Richiede grandi capacità di gestire lo stress e di mediare i conflitti. Eppure è un mestiere poco riconosciuto, spesso visto più come un hobby che come una professione. E tutto ciò porta, a volte, ad affidare l’accoglienza dei migranti, ossia (piccolo dettaglio di cui a volte qualcuno si dimentica) di esseri umani, a personale non solo impreparato, ma addirittura niente affatto portato per questo lavoro.
L’ultimo episodio, quello in cui una responsabile di un centro di accoglienza apostrofa come “macachi” un gruppo di migranti accolti nel centro, è un esempio di quanto detto.
Comprendo, come ho scritto all’inizio, che ci siano situazioni in cui è difficile mantenere la calma. Vorrei pensare, anche, che la persona sia un’ottima manager ed operatrice che abbia perso la lucidità necessaria in un momento di crisi. Può capitare.
Ma sono le giustificazioni che ha dato che mi preoccupano e che mi fanno riportare il caso singolo al problema più generale. Lasciamo stare l’affermazione che “siamo in Veneto, mica in Puglia” per spiegare che da una parte le regole si rispettano e dall’altra no. Su questo stenderei semplicemente un velo pietoso. Dire che macaco, in gergo veneto, è un modo “gentile” di dire sprovveduto, è una toppa peggiore del buco. Di sinonimi di sprovveduto ce ne sono ad iosa; usare proprio una specie di scimmia davanti a dei ragazzi africani non è il massimo dell’autocontrollo. Né si può pensare che gli stessi possano capire la differenza tra l’insulto ed il “modo gentile” di dire altro. Un operatore formato e di esperienza questo errore non lo farebbe. Sarebbe bastato scusarsi e giustificarsi dicendo di non essere stata in grado di gestire la situazione critica. Alla fine lo avrei compreso.
Il problema vero è l’autodifesa finale: “Io li tratto come se fossero figli miei”. Ecco, per me questo è peggio del famigerato “macachi”. Ed è sintomo di quell’impreparazione generale che affligge da tempo questo settore.
Basta con i “fratelli e sorelle migranti”. Basta con figli, parenti e affini. Compito di un operatore, di un manager, di un ente gestore, è garantire un’accoglienza efficace ed efficiente, che la struttura sia idonea e decente (come pare, dalle visite effettuate il giorno dopo, non essere affatto), e la tutela dei diritti, non di “adottarli”. Una frase del genere spiega molto più di tanti altri atteggiamenti.
Anche perché ai migranti, credetemi, di essere chiamati fratelli, sorelle, figli o altro interessa poco o nulla. Chiedono ben altro ad un operatore ed a un servizio. Questo è, per esperienza, uno dei sintomi della mancanza di formazione e del proliferare di figure di operatori improvvisati. Un’operatore dell’accoglienza deve, necessariamente, avere una dose di empatia, ma entro certi limiti stringenti. Gli eccessi di empatia possono avere effetti devastanti. Èsempre necessario un sano distacco: per il bene del migrante e dello stesso operatore. Una delle prime cose che insegnavo ai nuovi operatori ed agli stagisti era imparare a dire, davanti a richieste impossibili da soddisfare, le 4 parole magiche: non si può fare.
Difficilissimo da dire, e per questo in pochi ci riescono, e ci mettono anni per impararlo. Più facile dire che si risolverà tutto, anche quando si sa che non è vero. Creando aspettative inutili e, dopo, danni difficili da recuperare.
Consiglierei, allora, ai vari attori del settore dell’accoglienza una serie di cose a mio avviso indispensabili. Agli enti pubblici che affidano l’accoglienza ad enti gestori di selezionarli anche in base ai curricula degli operatori che lavoreranno al progetto. Agli enti gestori di selezionare il personale non in base alle amicizie (personali o politiche) ma in base all’esperienza ed alla professionalità, in modo che gli operatori più esperti possano fare anche formazione a quelli che lo sono meno. Agli operatori sociali di non sentirsi mai “arrivati” ma di aggiornarsi e formarsi continuamente.
In definitiva, dunque, sulla questione dei macachi ci posso anche passare sopra. Può succedere, è grave ma almeno comprensibile. Siamo essere umani anche noi operatori, alla fine. Ma sul desiderio di essere padri, madri, fratelli delle persone con (e non per) cui si lavora, quello no. Vuol dire che questo lavoro non fa per te.
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