Cultura

Nicolò Filippo Rosso: «Le mie foto per far riflettere sul costo dei nostri privilegi»

Il fotografo italiano protagonista al festival fotografico Zoom e vincitore del premio “Nature Humaine”: «La migrazione è una condizione umana del nostro tempo. Famiglie di tutto il mondo sono in fuga dalle guerre, dalla disuguaglianza, dalla povertà e dai totalitarismi. Se non si curano questi mali alla radice, nessuna politica migratoria potrà mai essere veramente efficace»

di Francesca Magnani

Il 10 novembre è la data ultima entro cui è possibile ammirare a Chicoutimi, ai bordi del fiordo di Saguenay le 23 mostre fotografiche raccolte dal visionario Michel Tremblay nel corso di un anno: quelle che ha scelto per questa edizione del suo brainchild, il festival fotografico Zoom, giunto al decimo anno, un evento che trasforma per un mese ogni autunno la piccola cittadina in una Perpignan artica: “È proprio al festival di fotogiornalismo francese che mi sono ispirato” dice Tremblay “e come succede là, anche qua da noi per alcuni giorni creiamo un’atmosfera unica, creativa e stimolante, di altissimo livello, coi migliori storyteller del mondo”.

Quest’anno tra i protagonisti, assieme a fotografi canadesi, inglesi, spagnoli, sloveni, francesi e ai vincitori del World Press Photo, tre fotografi italiani: Daniele Volpe col suo progetto sull’eccidio ixil in Guatemala, Antonio Faccilongo con il suo poetico lavoro sulle donne palestinesi che riescono a dare alla luce bambini mentre i coniugi sono nelle carceri israeliane, e Nicolò Filippo Rosso, che ha esposto Forgotten in the dust (“Dimenticati nella polvere”), il suo lavoro sui Wayuu, gli abitanti della penisola della Guajira, a nord della Colombia che sussistono in condizioni di estrema povertà. In cover Nicolò Filippo Rosso coi fotografi Frédéric Séguin e Gwenn Jean durante la serata dell'inaugurazione nell'hangar portuale di Chicoutimi in Quebec (Foto di Francesca Magnani).

Proprio con questa serie Rosso ha vinto a Saguenay il premio “Nature Humaine”.


Come sei arrivato, da laureato in Lettere a Torino, a essere uno dei fotografi di riferimento per i giornali di tutto il mondo in Colombia?

Dopo aver terminato l’universitá, ho studiato Lettere a Torino, sono partito per un viaggio in America Latina. Fotografavo per passione, e non credevo che sarebbe diventata la mia professione. Ero solo curioso di conoscere il continente ed ero attratto dalla natura, la selva, i deserti e i popoli indigeni che li abitano. Il primo grande viaggio mi ha portato dal Messico fino a Panama, dove imbarcandomi su un mercantile sono arrivato per la prima volta in Colombia. Nel 2011, due anni dopo, decisi di tornare in Colombia. Avevo in mente di usare la fotografia in modo più strutturato. Non volevo raccontare il mio viaggio, ma usare questo strumento per raccontare le storie delle persone e i popoli che incontravo. Per qualche motivo, pur essendo atterrato in Colombia, il mio piano era quello di andare in Ecuador, dove volevo raccontare la lotta dei popoli indigeni dell’Amazzonia contro gli abusi delle multinazionali petrolifere e il loro impatto sull’ambiente e sulla loro cultura. Viaggiando verso l’Ecuador però incontrai delle persone di una comunità indigena del Putumayo, proprio al confine con l’Ecuador. Nacque una forte amicizia con tutta la comunità, e senza quasi rendermene conto finii per fermarmi a vivere con loro alcuni mesi. Le foto che scattai nel Putumayo, durante le cerimonie e le festività tradizionali sono il primo progetto fotografico che ho realizzato. Durante quei mesi decisi anche che mi sarei dedicato alla fotografia. Tornato in Europa, durante i due anni successivi, lavorai come aiutante in cucina nei ristoranti e scattando foto di matrimoni, risparmiando denaro per un’attrezzatura professionale e per tornare in Colombia. Durante una portfolio review a Bologna, incontrai l’artista americano Stanley Greene, e seguii poi alcuni suoi masterclass a Parigi e Milano attraverso I quali sento di essermi introdotto nel mondo della fotografía di reportage. Finalmente tornai in Colombia nel 2014, e per quasi due anni continuai a vivere e fotografare nel Putumayo. Poco a poco hanno iniziato ad arrivare assignments e pubblicazioni e dal 2016 vivo a Bogotà, che uso come base da cui viaggio in tutto il paese, e nella regione, lavorando a incarichi per riviste, quotidiani e agenzie e ai miei progetti personali. Da tre anni sto lavorando a un progetto sull’impatto dell’estrazione del carbone nel nord del paese, e piú recentemente documentando la crisi migratoria venezuelana.

Parlaci di “Dimenticati nella polvere”. Chi sono le persone che hai ritratto? Qual è la storia della regione?

La Guajira è sinonimo in Colombia di estrema povertà e abbandono statale, ed è la sede di una delle piú grandi miniere di carbone a cielo aperto del mondo. I media nazionali denunciavano l’alto tasso di mortalità infantile e malnutrizione tra gli indigeni Wayuu, che popolano la Guajira, e denunciavano la miniera e il governo colombiano come responsabili. A metà del 2015 organizzai un primo viaggio nella regione, e poco a poco iniziai ad addentrarmi nella vita e nelle case dei Wayuu nelle loro comunità, e ad investigare il lavoro della grande miniera e le sue responsabilità rispetto alla crisi umanitaria. La grande quantità d’acqua di cui ha bisogno la miniera per garantire le operazioni (oltre 16 milioni di litri al giorno), ha prosciugato le principali fonti d’acqua della regione e l’accesso all’acqua potabile è sempre più difficile per i Wayuu. Senza accesso all’acqua non c’è prospettiva di un’economia basata sull’agricoltura, e l’allevamento di sussistenza. L’impatto ambientale della miniera, che produce carbone soprattutto per l’Europa, e l’italia è considerato da molti accademici la causa delle lunghe siccità degli ultimi anni, che hanno aggravato la desertificazione della regione. Con la siccità, anche le piante che i Wayuu utilizzano come medicina naturale sono a rischio e così il loro sapere ancestrale.È un progetto che ho chiamato Forgotten in the dust (“Dimenticati nella polvere”) e a cui continuo a lavorare. Dopo questi anni in cui ho passato periodi di settimane e mesi nella regione, sento la responsabilità di accompagnare le persone che fotografo nella loro resistenza, e cercare esempi di resilienza, oltre che documentare la tragedia. Come italiano, sento anche la responsabilità del mio paese, che é uno dei Principali acquirenti del carbone colombiano. Infatti, mentre questo progetto è stato pubblicato in tutto il mondo, in Italia continuo ad incontrare le resistenze degli editori. D’altronde, l’Enel, che distribuisce energia in Italia, è tra i finanziatori di alcune grandi testate giornalistiche italiane. È incredibile che ancora produciamo energia bruciando carbone, ma è così economico che compete con le energie rinnovabili. Il carbone è causa di malattie non solo per chi vive dove si estrae, ma anche in Europa, dove lo trasformiamo in energia. È una storia che non sempre i media hanno la volontà di pubblicare, ma continuo con questo progetto cercando di attirare l’attenzione sulle conseguenze delle nostre decisioni, sulla bellezza del popolo Wayuu, e per una riflessione sul costo reale dei nostri privilegi.

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Come si svolge in pratica il tuo lavoro quando ti trovi di fronte a situazioni ad alto impatto emotivo – e a volte anche di pericolo, come quando ti rendi conto di essere al cospetto di qualcuno che sta tra la vita e la morte?

La Colombia è un paese estremamente violento, con un divario sociale tra i più grandi del pianeta e con una guerra interna che dura da oltre 60 anni, tra i gruppi guerriglieri nati per contrastare i soprusi dell’oligarchia, e il governo che la difende. Nonostante un accordo di pace firmato nel 2016 tra lo Stato e il Principale gruppo guerrigliero, le FARC, la guerra continua ed è quasi scontato ricordare che ormai si tratta di controllo territoriale e narcotraffico. La Colombia è il primo produttore ed esportatore di cocaina in tutto il mondo. Ha il più alto numero di profughi interni del continente e il territorio è disseminato da mine antiuomo, eredità della guerra, e che in questo la rendono seconda solo all’Afghanistan. A qualunque livello della società quindi, documentando qualunque tipo di storia, è normale incontrare vittime. Campesinos, indigeni, militari, ribelli. Quando lavoro con scadenza sul collo e pochi giorni a disposizione per terminare un reportage, non c’è molto che posso fare per le persone che fotografo, se non raccontare la loro storia cercando di fare il mio lavoro al meglio. Ma è diverso quando lavoro a progetti personali, a cui posso dedicare molto piú tempo e dove entrano in gioco la relazione personale, la fiducia e l’amicizia reciproche con i protagonisti della storia che cerco di raccontare, come nel caso del lavoro ne La Guajira, o in quello con i migranti venezuelani.

Spesso i fotografi di reportage hanno scelto questo lavoro perché riconoscono la forza emotiva delle immagini, e la loro capacità di ispirare una riflessione e, in alcuni casi, contribuire a cambiamenti sociali già in corso, o di dare un impulso a movimenti sul punto di nascere. Tuttavia, lavorando ne la Guajira, ho spesso messo in discussione il mio ruolo e quello del mio lavoro. Che se ne fa un bambino malnutrito del mio reportage che forse, tra molto tempo, contribuirà come una goccia nel mare a un cambiamento economico, sociale, ecologico? Certo, la fotografia è un documento storico, e spesso acquisisce valore e importanza con il tempo. Ma che cosa succederà a quella persona, dopo averla fotografata? Se dopo una settimana tornerò a visitarla e non sará sopravvissuta, come avrò realmente contribuito a migliorare la sua situazione?

Così ho iniziato a prepare dei dossier sui casi più gravi che incontravo nelle comunità indigene della Guajira sui casi che consideravo, pur senza avere un occhio clinico, a rischio di morte. Inviai questi file, con copia dei documenti della persona, allo Stato (sindaci, governatori, presidenza della Repubblica) e ONG. Una ONG colombiana, Fucai (Fundación caminos de identidad), in risposta offrì di prendersi a carico alcuni casi. Non con tutti è stato possibile, ma un bambino di nome Yonar, che era in una situazione critica, ora sta bene ed è in salvo. Maricela, una ragazza di 22 anni, e madre di due bambini di meno di 5 anni, fu portata in ospedale e stabilizzata da uno stato di malnutrizione acuta. Morì però pochi mesi dopo, e Fucai si è presa carico dei suoi figli per i successivi 6 mesi. I bambini, e la zia che ora si prende cura di loro, hanno lasciato la casa in cui vivevano e non sono piú riuscito a contattarli.

Sono convinto che la fotografía debba avere un utilizzo sociale. Non sempre è possibile, e questo lavoro ha molti limiti: dalle libre editoriali alla difficoltà sempre piú grande di finanziare progetti lunghi e autoriali. Ciononostante, è in questa direzione che vedo il mio lavoro, pensando a una fotografía, e alla forza della sua estetica, applicata ad azioni che possano contribuire sia alla giustizia sociale, sia a una riflessione sui propri privilegi, per chi è più fortunato di altri.

Perché l’uso del bianco e nero?

La fotografia editoriale e in generale i lavori assegnati tendono a privilegiare il colore, spesso perché ciò permette una lettura più immediata, una descrizione più dettagliata delle scene, dando informazioni importanti sulla luce, i vestiti e i paesaggi.

Con i lavori personali, che sono documentari sociali, lavoro spesso in bianco e nero. Eliminando la distrazione data dal colore e i suoi dettagli , il bianco e nero lascia da parte le informazioni che non sono necessarie e spinge il lettore dell’immagine a concentrarsi sul messaggio principale della fotografia, spesso addirittura su un’emozione, al di là dell’azione rappresentata.

Se consideriamo la fotografía come un’interpretazione della realtà, il bianco e nero ne aggiunge un livello ulteriore, riducendo. Per questo ha una forza più diretta rispetto al colore. Personalmente, vedo la mia crescita, personale e fotografica, come un processo di riduzione. Ridurre, tagliare, eliminare il superfluo fa parte del mio tentativo di avvicinarmi all’essenza delle cose, della vita. In parte, è frutto dell’insegnamento che ricevo condividendo lunghi periodi di tempo con gli amici delle comunità indigene Kamëntza nel Putumayo e Wayuu, ne La Guajira.

Questa scelta ha anche un aspetto più tecnico. Non sempre posso lavorare solo all’alba o al tramonto, quando la luce è bella e i colori diventano pieni, morbidi e vivi. Lavorando il bianco e nero e i contrasti, le ombre date da una luce più dura in pieno giorno diventano parte della composizione, e aiutano a mantenere omogeneitá nella narrazione. E penso sempre alle corrispondenze; il carbone rappresenta il nero per eccellenza, è devastante per la salute per le sue polveri, e il bianco e nero riflette queste caratteristiche. Per le mostre di Forgotten in the dust, ho anche sempre scelto una carta matte, perché è più pastosa e aiuta a dare questo senso di polveroso, soffocante pensando al carbone.

I progetti a cui lavoro hanno un carattere molto specifico. Parlo del carbone ne la Guajira e della migrazione venezuelana, per esempio. Sono storie limitate in un’area geografica, ma riflettono una condizione umana del nostro tempo. L’estrazione di carbone risponde alla domanda globale di energia, e ha le stesse caratteristiche in America Latina, Africa, Russia, Australia. L’impatto del combustibile fossile e delle polveri sottili più evidente è quello sui popoli che abitano le terre dove si estrae il minerale, spesso indigeni, ed è sociale, economico e di salute pubblica. Il fatto che contribuisca ad aggravare gli effetti del cambio climatico, è un problema universale, indipendentemente dal luogo di estrazione.

Il bianco e nero in qualche modo astrae questa situazione dallo specifico all’universale. Così come per l’altro mio progetto: la crisi venezuelana mi ha portato a documentare uno dei flussi migratori più ingenti al mondo, che rivaleggia con quello siriano. Certo, racconto del Venezuela, ma purtroppo anche la migrazione è una condizione umana del nostro tempo. Famiglie di tutto il mondo sono in fuga dalle guerre, dalla disuguaglianza, dalla povertà e dai totalitarismi. Se non si curano questi mali alla radice, nessuna política migratoria potrà mai essere veramente efficace.

Attraverso queste storie, come degli esempi e degli specchi, cerco di capire il mondo in cui viviamo. Cerco di onorare il privilegio di poterlo fare attraverso la fotografía e in questo tentativo, da una professione che richiede solitudine e che non sempre ripaga i sacrifici necessari, condivido le mie esperienze con chi si emoziona con una fotografia, con la mia famiglia e con chi non conosco, attraverso una pubblicazione o un’intervista come questa.

Zoom Foto Festival, Chicoutimi, Fiordo di Saguenay, Quebec – Fino al 10 novembre

@zoomphotofestival

@nico.filipporosso

@magnanina

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