Politica

Lavoro e formazione professionale, cosa cambia con il referendum costituzionale?

Non sono fra i temi più citati nel dibattito, ma il referendum costituzionale del 4 dicembre prevede novità sul fronte del lavoro e della formazione professionale. Per approfondire questi contenuti Annamaria Parente, senatrice Pd, ha promosso la rete nazionale "Basta un Sì - per lo Sviluppo e il Lavoro".

di Sara De Carli

Non sono fra i temi più citati nel dibattito, ma il referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre prevede anche novità sul fronte del lavoro. Per approfondire i contenuti dell'art. 31 del testo della riforma costituzionale, è nata la rete nazionale "Basta un Sì – per lo Sviluppo e il Lavoro". A promuoverla è Annamaria Parente, senatrice Pd, napoletana, a lungo responsabile del Coordinamento Nazionale donne della Cisl.

Perché ha voluto la nascita di “Basta un sì, per lo sviluppo e il lavoro”?
È una rete di 40 comitati in tutta Italia, da Salemi a Torino, in otto regioni, anche se la maggior parte dei comitati sono nel collegio di mia elezione, la provincia di Roma. Abbiamo fatto diverse iniziative, tutte per approfondire i contenuti del nuovo titolo V, in particolare sul tema del lavoro, con il coinvolgimento di aziende nazionali e internazionali, associazioni, costituzionalisti ed esperti in materia di legislazione concorrente tra Stato e Regioni. Sento dire che le questioni che interessano alla gente non sono quelle della riforma costituzionale ma quelle del lavoro, della povertà… in realtà non c’è questa contrapposizione, la riforma costituzionale tocca temi concreti, che riguardano la vita delle persone.

Cosa dice la riforma sul tema lavoro?
Nel nuovo testo allo Stato è riconosciuta potestà legislativa esclusiva sulla previdenza sociale, compresa previdenza complementare e integrativa, tutela e sicurezza del lavoro. Allo Stato vanno anche le disposizioni generali e comuni sull’istruzione e formazione professionale, mentre l’organizzazione resta alla Regioni. E per la prima volta entrano in Costituzione le politiche attive del lavoro, sempre di competenza statale. Si tratta di un aspetto particolarmente importante, in primo luogo perché a queste ultime viene riconosciuto un ruolo costituzionale che fino ad oggi non avevano e in secondo luogo perché la partecipazione alle misure di attivazione (dai servizi di intermediazione alla formazione) diventa un diritto che lo Stato è tenuto a rendere esigibile su tutto il territorio nazionale.

La conseguenza pratica qual è?
In questi anni sul fronte lavoro abbiamo avuto moltissimi contenzioni per via della competenza concorrente, questo nuovo assetto porterà un modello collaborativo più che concorrente. Oggi con due potestà legislative ad esempio abbiamo 20 leggi diverse per l’apprendistato e per il tirocinio, per il sistema di accreditamento dei servizi per il lavoro… La qualifica di apprendista del Veneto non vale in Lazio e il disoccupato che in una regione beneficia di un assegno di ricollocazione, se si trasferisce in una regione dove non c’è il servizio, quello non è esigibile. Con il sì avremo una sola legge di apprendistato, un solo tirocinio, un solo sistema di accreditamento. I vantaggi saranno anche per le imprese, che potranno far riferimento ad una normativa nazionale unica sulle politiche ed i servizi per il lavoro – a cominciare dall’apprendistato, dalla regolamentazione dei tirocini e dal riconoscimento delle competenze professionali – senza dover modificare le proprie strategie in relazione alle 20 normative regionali attualmente vigenti.

Il timore però è che le regioni più avanzate possano essere penalizzate e che il centralismo possa determinare un arretramento al ribasso. Penso ad esempio alla Lombardia sull’istruzione e formazione professionale.
Arretramento? No, è impossibile che il cambiamento incida al ribasso. Lo Stato indicherà i livelli generali comuni di ogni settore, i criteri dei nuovi itinerari formativi, poi le regioni potranno integrare con altre misure anche rispetto alle risorse che avranno. Arretrare mai.

Ci spiega invece cosa comporta il fatto che le politiche attive del lavoro entrino nella Costituzione e ci entrino come materia di competenza dello Stato?
Per chi cerca lavoro, soprattutto nelle regioni meridionali, si tratta di un vantaggio enorme, in particolare se la riforma costituzionale viene letta alla luce del Jobs Act: se la regione non è in grado di garantire il diritto alla partecipazione alle politiche attive, dopo la riforma dovrà essere lo Stato a farlo. Con la riforma tutte le misure di politiche attive del lavoro saranno di competenza dello Stato, fermo restando che le regioni con più risorse potranno aggiungere risorse su target specifici, ma il livello essenziale sarà garantito in tutto il territorio nazionale, mentre attualmente nella ricollocazione ogni regione stabilisce destinatari e target diversi. Anche le risorse europee potranno essere gestite da Stato e Regioni in un assetto di maggiore collaborazione. Diciamo che l’Anpal avrà un compimento completo, mentre a Costituzione vigente la sua azione risulta un po’ più limitata, fondamentalmente centrata sull’assegno di ricollocazione, che partirà lunedì.

Lei ha lavorato a lungo in Cisl. Lasciamo da parte per un momento il suo ruolo politico: a partire da quell’esperienza, perché vota sì?
Perché vorrei che i diritti sul lavoro siano resi esigibili e uguali per tutti, su tutto il territorio nazionale. Per le donne lavoratrici, soprattutto al Sud con la disoccupazione femminile così elevata, rendere il diritto alla ricollocazione e l’accesso al lavoro uguale per tutti sicuramente sarà un aiuto. E aggiungo anche un altro tema, di cui si parla pochissimo: per le donne è una riforma importante, perché inserisce quel riferimento all’equilibrio fra donne e uomini nella rappresentanza per cui abbiamo fatto tante battaglie ai tempi della riforma della prima parte della Costituzione, ora lo rafforziamo ancora di più.

Foto J. Eid/Getty Images


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