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Cecco Bellosi: così si uccide la lezione di civiltà che arriva dal Kurdistan
Un modello di società improntato all'uguaglianza, che valorizza la cultura e la partecipazione: è il confederalismo democratico elaborato e applicato nel Rojava in Kurdistan. Anche nel campo profughi di Makhmour, visitato a inizio ottobre da Bellosi: «Se l'Occidente vuole uscire dal suo torpore, deve guardare al Kurdistan, riscoprendo le radici da una parte e il sogno del domani dall'altra»
di Marco Dotti
Che cosa accade in Kurdistan, dentro la guerra, o meglio: oltre la guerra? Siamo in tanti a chiedercelo. Tante domande, poche risposte. Cecco Bellosi della Comunità il Gabbiano si è mosso è c'è andato. Ha viaggiato fino a Makhmour, dove ha visitato il campo profughi a nord dell'Iraq, al confine con Siria e Turchia, che proprio i turchi bombardarono nel 2014 e nel luglio scorso (qui) e l'Isis cercò di conquistare, trovando però la forte resistenza della comunità.
A Makhmour, come nella regione del Kurdistan siriano del Rojava, vige il modello del Confederalismo democratico, la piattaforma politico-sociale elaborata da Abdullah Öcalan sulle basi del municipalismo libertario e dell'ecologia sociale teorizzate da Murray Bookchin. Öcalan lo descrive come «una amministrazione politica non statale o una democrazia senza stato».
«Quello che stanno cercando di fare i curdi è senza precedenti», ha scritto il filosofo Michal Löwy: «raccogliere le popolazioni kurde, arabe, assire, yazide, in un’auto-organizzazione comunitaria dal basso, entro una Confederazione laica, al di là del settarismo religioso e degli odi nazionali; porre l’ecologia e il femminismo al cuore di un progetto anti-capitalista, anti-patriarcale e anti-statalista; dare impulso all’uguaglianza tra uomini e donne attraverso la presidenza congiunta di tutti gli organismi, inventare una forma di potere politico democratico decentralizzato, fondato sulle assemblee comunali, oltre lo Stato: è questo il Confederalismo democratico».
Cecco, come sei arrivato in Kurdistan, nel campo profughi di Makhmour?
Con un’associazione che si chiama Verso il Kurdistan, che esiste dal 2003 e da anni ha un rapporto con il popolo curdo e particolare con questo campo profughi. Nel 1994, quando il governo turco di allora incendiò centinaia di villaggi, migliaia di curdi iniziarono una peregrinazione, un vero esodo che è transitato attraverso sette luoghi prima di arrivare a Makmour. Un terreno arido, in zona irachena.
Questo dal 1998, se non sbaglio…
Esattamente da ventuno anni e l’associazione Verso il Kurdistan porta aiuti concreti al campo, in particolare sul piano sanitario. Per quanto mi riguarda, ci sono arrivato perché uno dei “veterani” di questa esperienza, un amico ex primario a Pavia, mi ha portato con sé. Era la prima volta.
Un campo profughi come tanti altri campi profughi o c’è qualcosa di diverso?
La situazione è questa: l’Onu se n’è andata nel 2014. Bisogna considerare che quella è stata una delle zone di offensiva dell’ISIS e i ragazzi e le ragazze del campo sono stati in prima linea sia nella battaglia a Kirkuk, sia proprio nella cittadina di Makhmour che è accanto al campo e ha il più il grosso deposito di grano dell’Iraq. Dopo di che, per non lasciarsi mancare niente, l’Isis ha attaccato anche il campo, riconquistato dai ragazzi e dalle ragazze curde in due giorni.
Da allora l’Onu non si è più fatta vedere.
Le persone che oggi abitano il campo di Makhmour sono una comunità coesa, con un’unione interna cementata da un dramma che ha visto oltre millecinquecento caduti. Ma il dramma ha anche sedimentato il sogno di futuro: nel campo, su tredicimila persone, ci sono tremilacinquecento bambini. Rispetto a questo legame rinsaldato nel dramma collettivo, la comunità ha rielaborato le teorie sviluppate in carcere da Apo Ocalan: sono passati dalla teoria alla pratica del confederalismo democratico.
Ci spieghi di che cosa si tratta?
Spiccano due aspetti. Il primo è la spinta dal basso, che parte dai quartieri, che nominano i loro rappresentanti nell’assemblea del popolo che ha a capo un uomo e una donna. Le cariche non possono durare più di due anni e possono essere confermate solo per un mandato. Anche la municipalità, formata da una sindaca e da un sindaco, viene eletta dalla gente. Il tutto in una situazione in cui il 70% della popolazione ha meno di 32 anni, quindi è cresciuta lì. Dentro questa dimensione affascinante, importante e coinvolgente c’è anche un altro aspetto interessante dal punto di vista culturale e sociale: il protagonismo delle donne.
Questa esperienza ha permesso loro di realizzare il sogno di abbattere la struttura patriarcale che domina generalmente le società nel Medio Oriente.
Come hanno abbattuto questa struttura?
Lo hanno fatto sia dal punto di vista teorico che pratico. Teorico, creando una nuova scienza, la gineologia – da jin, che in curdo significa “donna” – che mira alla liberazione della donna attraverso la conoscenza della storia. Si riferiscono anche alla tradizione presumerica (ricordiamo che il campo è in Mesopotamia). Sostengono che i sumeri sono stati i primi a organizzare una società piramidale, divisa in caste. Prima di loro esisteva una società orizzontale: ed è da lì che le donne curde sono partite nella loro ricerca. Come principio di vita.
Sul piano concreto questo ha voluto dire: abolire i matrimoni combinati, la cancellazione dell’acquisto delle mogli e, soprattutto, è stato eliminato il fenomeno delle spose bambine. Nel campo non ci si può sposare prima dei diciotto anni.
Hai parlato di un campo pieno di bambini: come vivono?
Nonostante la povertà, non c’è un bambino che ti chieda un soldo.
Come leggi questo fenomeno, sorprendente per chi conosce la realtà di altri campi profughi?
Lo leggo come il segno di un grandissimo lavoro culturale. Un lavoro che dura da oltre vent’anni. Vent’anni fa queste persone sono arrivate e vivevano in tende. Quando hanno capito che la situazione non sarebbe stata temporanea, hanno iniziato a costruire piccole casette in mattoni: ognuna con un piccolo orto e, nei quartieri, un frutteto comune. Accanto a questo lavoro di costruzione fisica del campo, c’è stato questo grande lavoro culturale: tutti i bambini vanno a scuola, dalle elementari alle superiori. Non vanno a scuola per più di quattro ore al giorno, perché gli insegnanti sostengono che il livello di attenzione non può superare quelle quattro ore, e poi fanno altre cose, soprattutto di tipo culturale e sociale.
Consideriamo che gli insegnanti sono pagati cinque dollari al mese, ma è incredibile il loro impegno.
Ci credono davvero, perché è un modello comunitario concreto.
Che cosa possiamo imparare da questa comunità, anche in contrapposizione all’Isis?
Assistiamo allo scontro tra una comunità maledetta, l’ISIS, che comunque è una comunità anche se tutta proiettata al passato, e una comunità che pur guardando alle radici è proiettata al futuro. Teniamo conto che il modello della comunità del campo di Makhmour – uno dei primi in cui è stato applicato il confederalismo democratico – è stato poi adottato in Rojava, nel Kurdistan siriano, dove lo scontro è su un livello diverso.
Il Kurdistan libertario ci riguarda, scriveva qualche tempo fa il filosofo Michael Löwy…
Anche perché nel Rojava parliamo di 3 milioni di abitanti, parliamo di città, parliamo di una comunità etnicamente non omogenea, fatta di curdi, arabi, cristiani, musulmani… Il Rojava è, spero che non si debba dire era, un grande laboratorio di speranza. Io credo che la cosa che dovremmo imparare è questa: l’Occidente, come in una specie di torpore del presente, ha bloccato ogni prospettiva di futuro. Qui c’è futuro.
Ti porto un esempio. Durante un’assemblea, parlando di confederalismo democratico, si accenna al tema della sicurezza. La sicurezza – dice la presidente dell’assemblea – è una questione collettiva. La sicurezza collettiva garantisce quella individuale, non viceversa. La comunità si difende in maniera comune, non con le telecamere, non isolandosi o sparandosi l'uno con l'altro.
È incredibile la lezione che arriva da questa parte di mondo, su temi come le migrazioni, la cultura, la partecipazione, la democrazia.
Negli ultimi giorni di viaggio abbiamo incontrato il direttore della cittadella di Erbil: è costruita su undici strati ed è la più antica cittadella del mondo. È patrimonio dell'Unesco. Fino al 2016 è stato il sindaco della città, che ha più di un milione di abitanti: ci ha spiegato che durante la guerra, nel Kurdistan iracheno, che ha 4 milioni di abitanti, hanno ospitato 2 milioni di profughi. Chi ha voluto rimanere è rimasto, chi ha preferito tornare a casa è tornato. Il tutto in una società costitutivamente multietnica. In uno scenario che loro chiamano «lo scenario della Terza guerra mondiale», dove tutte le grandi potenze stanno giocando la loro partita per il controllo delle risorse del Kurdistan, comunque le persone riescono a guardare al futuro. È la dimensione di una società aperta e giovane. Se l'Occidente vuole uscire dal suo torpore, deve guardare al Kurdistan, riscoprendo le radici da una parte e il sogno del domani dall'altra.
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