Cultura
L’elemosina ha finito il suo tempo
Il padre della teologia della liberazione, Gustavo Gutierréz, è a Roma per il Sinodo sull'Amazzonia: «Cos’è la teologia della liberazione? È soprattutto il primato dei poveri. E povero è colui che non ha il diritto di avere diritti. Il lavoro con i poveri richiede invece che essi si rendano conto di essere degli esseri umani». Questo Sinodo dà un ruolo guida a una delle più grandi periferie esistenziali dell’umanità, da secoli
Era il 22 luglio 1968. Sulla costa del Pacifico, a Chimbote, una città di pescatori nel Nord del Perù, un frate domenicano dai tratti che ne rivelano l’origine quechua, l’antica popolazione nativa che custodisce la lingua degli Inca, era stato invitato a tenere una conferenza sulla “teologia dello sviluppo”. A Gustavo Gutiérrez il tema non piaceva: parlò ai catechisti di “teologia della liberazione”. Tre anni più tardi pubblicò a Lima un libro che si intitolava proprio così, Teología de la liberación: il testo che avrebbe battezzato la corrente teologica più discussa di fine Novecento…
Cinquant’anni dopo la sua nascita, la teologia della liberazione continua a essere viva e attiva. Si riformula nei nuovi processi di liberazione, in sintonia con i soggetti emergenti delle trasformazioni sociali: donne discriminate che acquisiscono potere; culture un tempo distrutte che rivendicano la propria identità; comunità indigene che rivendicano le loro visioni del mondo autoctone non soggette alla colonizzazione occidentale; comunità contadine che si mobilitano contro il capitalismo selvaggio…
Con il pontificato di papa Francesco, ha ripreso slancio e vigore il dibattito sulla teologia della liberazione, questa corrente ecclesiale nata dal “matrimonio della Chiesa con i poveri”, per dirla con Leonardo Boff, ex frate francescano e teologo brasiliano (vedi La teologia latinoamericana 50 anni dopo Medellin continua sulle orme di Francesco e Papa Francesco e quegli auguri al fondatore della teologia della liberazione).
Il primato dei poveri
«Cos'è la teologia della liberazione? In primo luogo è il primato dei poveri»: così ha esordito padre Gustavo Gutiérrez, intervenuto a Roma nel dibattito “I poveri e la Chiesa”, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio e da Andrea Riccardi lo scorso 8 ottobre. Padre Gutiérrez, rispondendo alle domande di Riccardi e successivamente dei partecipanti, ha ripercorso alcune fasi della sua vita, come la partecipazione al Concilio Vaticano II e alle Conferenze Episcopali dell’America Latina (in particolare Medellin, nel 1968), sottolineando anche i momenti difficili passati a causa della discussione nata attorno ai suoi libri sulla teologia della liberazione.
Cos’è la teologia della liberazione? È soprattutto il primato dei poveri. E povero è colui che non ha il diritto di avere diritti. Il lavoro con i poveri richiede invece che essi si rendano conto di essere degli esseri umani e – chi lo è – di essere cristiani
padre Gustavo Gutiérrez
Alla domanda diretta che dicevamo prima, “Cos’è la teologia della liberazione?”, padre Gustavo ha risposto «che è soprattutto il primato dei poveri. E povero è colui che non ha il diritto di avere diritti». Gutiérrez è partito dalla propria esperienza di studente in medicina, giovane idealista che sognava di essere vicino alla sofferenza umana, ma anche al disagio sociale. È in quegli anni e in quel contesto che matura la sua vocazione al sacerdozio. Prete novello di una Chiesa “verticale” quale quella peruviana, Gutiérrez guarda con speranza al Concilio, in particolare ascoltando il Papa proporre di mettere a tema dell’assise i poveri e la povertà. Un’idea che non sarebbe stata del tutto al centro del Vaticano II, ma avrebbe comunque ispirato e coinvolto la conferenza dell’episcopato latinoamericano a Medellín, in Colombia, nel 1968, mettendo in crisi un atteggiamento che considerava sufficiente l’andare a messa per essere buoni cristiani. Negli anni successivi padre Gutiérrez lavora alla teologia della liberazione, un percorso che avrebbe portato molti problemi con alcuni settori della Chiesa, ma anche attirato tanta gente e condotto pastori e semplici credenti a testimoniare la propria fede fino al martirio.
«La centralità del povero è l’affermazione fondamentale della teologia della liberazione», ha spiegato Gutiérrez. La teologia della liberazione è nata dall’impegno diretto con i poveri – «non sono mai stato professore di teologia», ha rivendicato l’anziano domenicano, «sono stato parroco e prete» – e dal confronto tra fede cristiana e povertà. Certamente, da tutto questo sono sorte delle difficoltà: «Talvolta è stata dura, ma la scelta è stata quella di lavorare nella Chiesa, dall’interno. Ed ora molto è cambiato», ha chiosato Gutiérrez.
«Il mio è stato un contributo. Altri contributi sono venuti e verranno. È la Chiesa che cammina, e non cammina dietro al libro di un parroco». Ma era ed è necessario guardare ai poveri: «Il povero è colui che non ha diritto di avere diritti. Il lavoro con i poveri richiede invece che essi si rendano conto di essere degli esseri umani e – chi lo è – di essere cristiani. L’elemosina, che ha avuto uno spazio eccezionale nella storia della Chiesa, ha finito il suo tempo, almeno in parte. Anche perché la povertà ha cause da affrontare, perché le cose possano cambiare. Occorre essere voce dei senza voce, lottare perché i senza voce comincino ad avere voce. Una lotta che continua, perché la povertà è ancora presente nel mondo e ha radici in un’economia spietata, “di morte”, come ha detto papa Francesco».
Certo, si dice che “la Chiesa ha scelto i poveri, ma i poveri hanno scelto le sette”, ha ammesso Gutiérrez. «È vero, ma questo non vuol dire che la scelta per i poveri non sia stata giusta. E non toglie che l’idea di una teologia della prosperità sia un grande inganno nei confronti dei poveri. È che ci muoviamo in grande ritardo. Il Papa attuale affronta – come deve fare – la situazione ingarbugliata che ha trovato nella Chiesa e prova a cambiare molte cose. Ha saputo prendere la strada giusta e va sostenuto in questo cammino», ha concluso.
Il 4 ottobre, padre Gutiérrez aveva incontrato Papa Francesco (che l’ha definito “enfant terrible”) nella casa generale dei Gesuiti, nella cornice del congresso internazionale “A quarant’anni dalla Conferenza di Puebla. Comunione e partecipazione”, promosso dalla Pontificia Commissione per l’America Latina (Cal). Il presidente della Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), mons. Miguel Cabrejos, ha messo in evidenza la continuità di quell’evento ecclesiale con il Concilio Vaticano II e con la Conferenza generale di Medellín (1968), in quanto «sviluppò una profonda riflessione cristologica ed ecclesiologica sull’evangelizzazione con una prospettiva e un’anima latinoamericane».
Il cardinale Gianfranco Ravasi, in un articolo apparso su Il Sole 24 Ore il 19 maggio 2019, ha riabilitato Gustavo Gutiérrez. «La Chiesa si deve inserire come seme e lievito nei processi di liberazione integrale della persona e dei popoli, offrendo il suo contributo efficace perché il regno di Dio, eretto sulla verità e sulla giustizia, inizi già ora ad essere edificato come prima tappa della pienezza escatologica. La teologia ha la funzione di elaborare una riflessione critica del comportamento ecclesiale, ribadendo alcuni capisaldi come la dignità della persona, la nozione del Dio biblico presente e attivo nella storia, la dimensione comunitaria e non intimistica della fede cristiana, la Parola di Dio non come astratto contenitore di verità ma come dinamica promozione di carità e giustizia, così da creare l’uomo nuovo più libero e nella pienezza della sua persona. La figura del teologo peruviano è stata un punto di riferimento per molti, anche per il rigore e il calore del suo pensiero che è stato capace di evitare certe derive socio-politiche, senza però edulcorare l’incidenza concreta della sua visione. Essa si basa, infatti, su una liberazione “integrale” perché compatta e unitaria è la persona umana e, quindi, la teologia esige di essere sempre incarnata e contestualizzata. Si è, così, allargato nelle sue opere successive l’orizzonte, coinvolgendo temi come le minoranze, la vita, la dimensione mistica, la sessualità, l’istruzione e la cultura. Anche se ora meno rilevante, proprio a causa di un differente contesto socio-culturale e politico, la riflessione di Gutiérrez rimane uno snodo ancor vivo nella teologia e nella pastorale, come è attestato dal magistero di papa Francesco”, ha scritto il cardinale Ravasi.
Certo, si dice che “la Chiesa ha scelto i poveri, ma i poveri hanno scelto le sette”. È vero, ma questo non vuol dire che la scelta per i poveri non sia stata giusta. E non toglie che l’idea di una teologia della prosperità sia un grande inganno nei confronti dei poveri. È che ci muoviamo in grande ritardo
padre Gustavo Gutiérrez
La teologia india della liberazione influenzerà il Sinodo Panamazzonico?
Il documento preparatorio per il Sinodo sull’Amazzonia (in corso, 6-27 ottobre), il cosiddetto Instrumentum Laboris, descrive l’Amazzonia come luogo in cui la «comprensione della vita è caratterizzata dalla connessione e dall’armonia dei rapporti tra l’acqua, il territorio e la natura, la vita comunitaria e la cultura, Dio e le varie forze spirituali. Per loro, “bien vivir” significa comprendere la centralità del carattere relazionale-trascendente degli esseri umani e del creato, e presuppone il “fare bene”. Le dimensioni materiali e spirituali non possono essere separate». Queste cosmovisioni particolari, queste sensibilità e culture comunitarie sono lontane dal senso comune che abbiamo nel nostro Occidente, come ho recentemente scritto nel mio libro Cambios civilizatorios y nuevos liderazgos sociales (Edizioni Antropos, Bogotá, ottobre 2018) con il prologo del Cardinale Turkson.
Questo paradigma ancestrale del bien vivir (adottato nelle recenti costituzioni di Bolivia e Ecuador) può influenzare radicalmente anche la Chiesa Universale che si sta riunendo nel Sinodo dell’Amazzonia come apertura all’ascolto e al riconoscimento dei popoli indigeni, come ha documentato VITA nell’articolo Il volto amazzonico della Chiesa, con l’intervista esclusiva a Suor Alba, missionaria nell’Amazzonia colombiana.
Questo cambiamento di prospettiva viene qui riassunto dal neo-arcivescovo di Lima, mons. Carlos Castillo Mattasoglio. Padre Carlos – come tutti lo chiamavamo il 4 ottobre 1986 all’Arena di Verona, in occasione di un incontro organizzato dal movimento ecclesiale del Triveneto “Beati i Costruttori di pace” – prete di periferia di Lima, alunno di padre Gutiérrez, professore all’Università Cattolica di Lima rappresenta il volto progressista della Chiesa latinoamericana che oggi gode del sostegno strategico di Papa Francesco. Mons. Carlos Castillo Mattasoglio mi ha spiegato che «il Sinodo amazzonico è un esempio della grande prospettiva della “Chiesa in uscita” proposta da Papa Francesco in totale fedeltà al concilio Vaticano II. Con questo Sinodo un ruolo guida viene assegnato a una delle più grandi periferie esistenziali dell’umanità nei secoli, ed è chiamato alla consapevolezza che la vita di tutta l’umanità dipende dalla vita di questi popoli insieme alla loro ecologia. È un Sinodo per ri-suscitare la solidarietà umana con il mondo che Dio ha creato e ci ha lasciato come responsabilità. La questione centrale è come la Chiesa si impianti robustamente in una terra e in un popolo di culture diverse che mantengono e rinnovano la memoria ancestrale del valore della natura, in condizioni assolutamente diverse da quelle della maggior parte del mondo urbano. Considerando che siamo di fronte ad un’emergenza ecologica, è necessario raccogliere tutto il ricco insegnamento che è stato acquisito dalle comunità missionarie cristiane in unità con i popoli indigeni per quanto riguarda il modo semplice di vivere e l’esperienza della fede, e come tale esperienza può essere un contributo alla Chiesa universale e al mondo intero.
Il Sinodo amazzonico è un esempio della grande prospettiva della “Chiesa in uscita” proposta da Papa Francesco in totale fedeltà al concilio Vaticano II. Con questo Sinodo un ruolo guida viene assegnato a una delle più grandi periferie esistenziali dell’umanità nei secoli, ed è chiamato alla consapevolezza che la vita di tutta l’umanità dipende dalla vita di questi popoli insieme alla loro ecologia. È un Sinodo per ri-suscitare la solidarietà umana con il mondo che Dio ha creato e ci ha lasciato come responsabilità.
mons. Carlos Castillo Mattasoglio, arcivescovo di Lima
La Chiesa del Perù, nelle sue diverse diocesi amazzoniche e quelle più urbane, è stata sensibilizzata in tutti questi mesi per partecipare al Sinodo, contando sulla visita alla Madre de Dios di Papa Francesco, durante la quale ha posto le basi di un modello ecclesiale semplice e dialogico che potrebbe favorire un’opzione per uno sviluppo ecologico integrale. Appena entrati a Lima, abbiamo voluto sensibilizzare questo aspetto collegandolo alla sfida della città che, essendo lontana dall’Amazzonia, tuttavia la influenza, poiché Lima è la città che per la sua modernità è quella che maggiormente contribuisce al riscaldamento dell’ambiente in Perù e vive indifferente alle conseguenze delle emissioni di gas tossici.
Insieme a questo, gli abitanti dei villaggi indigeni arrivano a Lima e formano comunità che non sempre valorizziamo o consideriamo parte della vita della Chiesa, pur essendo cristiani o cattolici come noi. La città tenta di adottare modi tradizionalmente urbani di vivere la fede. Il Papa ha chiesto ai giovani di Madre de Dios di non perdere la propria identità per tornare nella foresta con nuove sintesi che aiutino ad assumere uno sviluppo ecologico integrale. Dal momento che nell’arcidiocesi di Lima siamo in preparazione dell’Assemblea sinodale, includeremo negli argomenti l’aiutarci a immaginare i nostri legami con le diocesi amazzoniche e alcune proposte di evangelizzazione che aiutano ad agire a partire dalla città di Lima a favore della cura della nostra giungla amazzonica. È anzitutto necessario abbandonare l’approccio colonialista che vede nella foresta solo un grande magazzino di risorse per le industrie.
Questa visione disumana e avida del complesso mondo amazzonico deve essere superata attraverso una profonda conversione che cambia il nostro orizzonte ristretto. Francesco nella Laudato si’ ha aperto il confronto e il dialogo per cambiare mentalità molto chiuse in tutte le aree urbane. Ogni decisione pastorale deve essere presa comprendendo e apprezzando la realtà nella sua complessità, così come il significato evangelizzatore della stessa. Senza il principio di realtà, ogni decisione è ottusa. Dobbiamo ampliare la nostra prospettiva attraverso l’apertura spirituale per dare una risposta adeguata a un mondo di cui conosciamo poco. Non mi dilungo sui dettagli, ma credo che questo debba essere il criterio di discernimento di varie questioni ecclesiali, non le nostre complicazioni occidentali e urbane. Contempliamo e comprendiamo con rispetto la singolarità del mondo con cui stiamo dialogando, lasciamo i pregiudizi e abbandoniamo la complicità con i predatori e gli avidi di certe finanze e industrie. Nemmeno una sola concessione teologica a questi interessi. Ecco perché affrontare la questione amazzonica impegna vivamente l’intera Chiesa a lasciare la sua autoreferenzialità e struttura. Il Sinodo ci dà energia verso l’esterno e ci aiuta a trovare nuovi modi di vivere nella Chiesa.
* Cristiano Morsolin, autore di questa corrispondenza, é esperto di diritti umani in America Latina dove lavora dal 2001
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