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Trump è Presidente

Donald Trump è il 45° presidente degli Stati Uniti d’America. Di lui, opinion makers, intellettuali e commentatori ci hanno raccontato molto, forse troppo, ma spiegato poco. Finisce l'era dello storytelling politicamente corretto, se ne apre un'altra. Quale? Questo è il problema

di Marco Dotti

Di Donald Trump, il 45° presidente degli Stati Uniti d’America opinion makers, intellettuali e commentatori ci hanno raccontato molto, forse troppo, ma spiegato poco. Difficile capire questo atteggiamento, davanti a un indisciplinato outsider della politica che, da subito, è però stato capace di radicarsi in quell’America che ieri, oggi e forse anche domani continuiamo e continueremo a non voler vedere e a non voler capire, ma con la quale dovremo fare i conti.

Fino a ieri sera (ora italiana), Trump era tutti e nessuno: i sondaggi lo davano perdente, anche se non con il divario previsto qualche mese prima, schiacciato dallo show della Clinton (che nel solo mese di settembre ha ricevuto 1miliardo di dollari per la sua campagna), al massimo pronti a conferirgli la classica medaglia di latta e una bella pacca sulla spalla. Persino Bruce Springsteen, che il cuore dell’America lo dovrebbe conoscere, si era esposto cantando per la Clinton. Ma l'America non è (solo) Sprigsteen, non è solo Dylan, hipster modalioli e Philip Roth. Di certo, non è più la Clinton.

Negli scorsi giorni, per lei è stato tutto un crescendo di cantanti, rapper, attrici e attori a confermare in un paradosso troppo grande per non risultare vero agli occhi dell'elettore medio, quanto Trump andava urlando sull'«establishment culturale e le corporations dei media».



Come se non ci fosse – e c’era – possibilità di toccare da dentro quei temi e quei problemi che solo Sanders, poi neutralizzato nel suo imbarazzato e imbarazzante appoggio alla donna che ha messo fine alla dinastia Clinton (perdente dinanzi all’uomo che ha messo fine alla dinastia Bush) aveva saputo toccare: la deindustrializzazione, i debiti, scolastici e non, la questione rurale, un paese che arranca e si sente senza radici, il problema di chi non vuole – e sono i più – un mondo open borders, a frontiere illimitatamente aperte. Trump ha vinto e l'unica opposizione, ora, potrà essere quella interna, di un partito repubblicano che non ha mai tollerato il proprio candidato, ma grazie a quel candidato conquista la maggioranza anche al Congresso.

«Uno è un pazzo, l’altra un’assassina» raccontava, qualche giorno fa un intervistato, su un’emittente televisiva. Andiamoci piano, ora uno è presidente, con una camera a maggioranza repubblicana, l'altra è pur sempre il sottosegretario di Stato in carica. Andiamoci piano, ma il sentire e non solo l’umore è quello. Il partito della upper class alleata con le minoranze culturali non rappresenta più, da tempo, la maggioranza del Paese. Ora lo sanno anche i ciechi. Dalla green economy – percepita come trasferimento di risorse pubbliche a élites – all'Obama care che ha, di fatto, aggravato la situazione dei più disagiati: davvero in questi anni Obama-Clinton non hanno saputo far altro? La domanda è aperta. Ma oggi ci troviamo davanti a un Presidente che è un foglio bianco. Geopolitica, politica interna, politica economica: che succederà? Nemmeno Trump, forse, lo sa. Aumenterà le spese in infrastruttura (è pur sempre un costruttore) e in armi e difesa? E il TTIP? La Nato, l'Europa? Il suo staff? Nessuno conosce o sa i suoi progetti per la Casa Bianca. Ci troviamo anche senza una corretta lettura di quel Paese che lo ha scelto. Il Nobel per l'Economia Paul Krugman, questa mattina, si chiedeva: «il nostro Paese sconosciuto. Questo è il segno di un Paese fallito?». Forse, il principale fallimento è quello di élites e opinion leaders sempre più staccati dall'opinione pubblica e dai suoi problemi. Nelle democrazie occidentali bisogna oramai prendere atto dell'imprevedibilità di questa opinione pubblica, sul medio termine e non solo sul breve.

Una scelta tragica, sofferta, temuta e paventata fino all’ultimo sondaggio (coperto). Obama, fiutando l’aria, già stanotte ha detto che, comunque, «il sole sorgerà anche domani sul più grande Paese del mondo». Chissà perché, ma oramai nemmeno lui sembra credere più a quello che dice. Eravamo partiti con un «Yes we can» e siamo finiti con gli aforismi alla Osho. Nel mezzo, però, resta il problema: che cos’è quest’America? Non basteranno due reportage rimediati all’ultimo, per capire servirà ben altro. E forse non basterà.

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