Welfare

Sudan, storia di un popolo senza diritti

Nei villaggi manca tutto e la malaria incombe ovunque. Ma il governo è impegnato a cacciare volontari e missionari.

di Paolo Giovannelli

Èun lungo elenco di “non c’蔂 il Sudan raccontato dalla volontaria della ong Cooperazione e Sviluppo, Rosaria Onida, appena rientrata in Italia. Nel suo diario di viaggio scrive: “Ho trascorso 16 giorni nella regione Lakes, nel Sud Sudan. Non c’è cibo, non c’è assistenza sanitaria, non ci sono mezzi di trasporto, non ci sono rivendite di generi alimentari di alcun tipo, non c’è luce elettrica, non ci sono strade, non c’è la scuola, non c’è il telefono, non ci sono abiti”. C’è invece, dal 1955 poi riacutizzatosi nel 1983, un conflitto maligno, perennemente latente e strisciante. Come un serpente velenosissimo. La capacità di reazione, di ripresa degli stessi sudanesi è praticamente azzerata. «Anche la società civile del Sudan, soprattutto di quello meridionale», spiega ancora Onida, «è vulnerabilissima come il resto della popolazione e le scarse e deboli forme di aggregazione sociale si confrontano con una realtà troppo crudele». In Sud Sudan, oltre alle milizie, spadroneggiano pure le malattie, in un contesto igienico-sanitario che sarebbe da ottimisti definire precario. Il medico della ong Comitato collaborazione medica (Ccm) di Torino, Renato Correggia, coordina gli interventi dei colleghi chirurghi. Qualche giorno fa ha attraversato gli abitati di Billing, Adior, Jrol, Rumbek (la potenziale capitale del Sud Sudan) nella regione del Bahr El Ghazal, dove la ong piemontese gestisce alcuni progetti sanitari. «Nel Sud Sudan», afferma, «la guerra ha distrutto circa 300 strutture sanitarie. I nostri chirurghi operano soprattutto enormi ernie inguinali e gozzi (nell’ultima missione, i dottori italiani sono intervenuti su 78 persone in due settimane, ndr). Agli occhi, o meglio alle cataratte, ci pensa una ong tedesca, con centinaia di interventi al giorno. Per le donne esiste poi il problema delle fistole vescico-vaginali, spesso motivo di allontanamento dalla famiglia e dal villaggio a causa del continuo e violento stimolo a urinare. Purtroppo», osserva concludendo Correggia, «l’intero Sud Sudan è soprattutto un museo di medicina tropicale: imperano il “verme di Guinea” o dracuncolosi, il colera e il “kala-azar”, mentre la malaria resta la prima causa di morte. La vita delle persone è perennemente a rischio: la stessa Banca mondiale ha calcolato un’aspettativa di vita inferiore ai 52 anni, con gli indici di mortalità materna e infantile pari rispettivamente a 700 ogni 100 mila e 99 ogni 1000 nascite». In Sudan, i diritti umani semplicemente non esistono. Il coordinatore della Campagna italiana di informazione e di pressione politica per la pace e il rispetto dei diritti umani in Sudan (sostenuta dalle associazioni di volontariato e pacifiste Acli, Amani, Arci, Caritas, Cesvi, Cuore amico, Mani tese, Nigrizia, Pax Christi), padre Tonio Dell’Olio, ricorda: «Nel 1995 lanciammo un’altra campagna intitolata “Sudan, un popolo senza diritti” proprio perché ci sembrava che il Paese registrasse ogni sorta di violazione dei diritti umani. Oggi, in Sudan, permane fame e schiavitù, nonché oppressione della libertà di opinione. Ogni forma di pluralismo rimane bandita». «Purtroppo, all’orizzonte, non si profila nulla di buono», gli fa eco il direttore del mensile Nigrizia, il padre comboniano Gino Barsella. «Il governo continua a controllare il Sud Sudan attraverso una politica di arabizzazione e islamizzazione». I cattolici di Khartoum, comunica l’agenzia giornalistica missionaria Misna, specie nella zona di Dorushab, sono oggetto di continue vessazioni da parte degli integralisti islamici: proibita la celebrazione delle messe, arresti di catechisti e seminaristi da parte della polizia, minacce ai sacerdoti. Il 7 agosto scorso si è verificata un’immotivata espulsione dal Paese di un missionario cattolico di origine canadese, padre Gilles Poirier, in Sudan dal giugno 1992. Ma anche le ong entrano nel mirino del governo di Khartoum. Il ministro degli Esteri, Mustafa Uthman, ce l’ha soprattutto con la ong scandinava Norwegian People’s Aid (Npa), ma anche con Christian solidarity international e l’Organizzazione per i diritti umani nel Sudan, concordi con l’Esercito di liberazione popolare del Sudan (Spla) sul lancio di 22 bombe chimiche da parte dell’aviazione sudanese sui villaggi di Kaaya e Lainya (il fatto è avvenuto il 23 luglio scorso): le ong sono state ritenute colpevoli di simpatizzare con i ribelli nel tentativo di destabilizzare il Paese e mettere sotto scacco il governo. Ancora padre Barsella precisa: «In Sudan, chi non è con il governo, o lo contraria, è considerato nemico. Al Nord la Chiesa cattolica è sempre più indebolita, mentre al Sud Khartoum continua a nicchiare, alternando violenze a richieste di cessate il fuoco per trarre vantaggio dal controllo di un importante oleodotto. In tale situazione è logico che, anche all’inizio di questo mese, i vescovi cattolici abbiano deciso di levare voci di protesta e di denuncia, in occasione della loro tredicesima assemblea plenaria». Ma, per il direttore di Nigrizia, anche all’Onu c’è qualcuno troppo attento ai calcoli economici: «Le Nazioni unite spendono troppo per alimentare la macchina logistica degli aiuti dell’operazione Lifeline Sudan (Ols), circa mezzo milione di dollari al giorno. Allora, penso sia anche lecito chiedersi: a chi serve questa guerra?».
Per informazioni sulla Campagna italiana per la pace e il rispetto dei diritti umani in Sudan: segreteria nazionale c/o Acli, via S. Antonio del Fuoco 9/a, 26100 Cremona. Tel. 0372-26663; fax 0372-28836
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