Formazione

Due torri cariche di paura

Più anziani, più immigrati e più poveri: questi gli unici indici in positivo di una città che era il simbolo dell'opulenza e dell'efficenza amministrativa.

di Riccardo Bagnato

Tra il mito della Bologna grassa ma solidale, cui spesso i non bolognesi fanno riferimento con invidia, e quella buona parte di bolognesi doc che insiste sul degrado sociale della città, ci sono molti segnali di un fenomeno nuovo e per certi versi impensabile per la città dell’opulenza e dell’efficienza: la paura. «A Bologna ce n’è tanta», conferma Don Giovanni Nicolini, direttore della Caritas. Ma paura di che? Paura di scendere per strada, paura di non avere una casa, paura, infine e soprattutto, dell’altro, dell’immigrato. Invisibile oppure fin troppo visibile. Comunque sia, di un estraneo da tenere alla larga. Nasce forse da qui il piano preparato dalla nuova giunta di fissare un “numero chiuso” agli ingressi degli immigrati e di conceder alloggi a chi un lavoro già ce l’ha. La “Paura”, che oltre a essere la parole chiave della campagna elettorale scorsa, quella per la poltrona di sindaco, fa sempre di più sentire i suoi effetti: bisogni che non trovano risposte e povertà; così almeno l’ha tradotta la Consulta permanente sull’esclusione sociale, organismo nato quest’anno su sollecitazione del non profit bolognese. La mancanza di casa, la penuria di lavoro, e la povertà delle relazioni umane, tre aree di crisi in cui individuare i detonatori di esclusione sociale. «Nelle 18 azioni positive, che la Consulta ha indicato all’Amministrazione comunale, la casa è al primo posto», dice Mario Regazzi, sempre della Caritas. «Per chi ha lavoro, per i numerosi universitari, ma soprattutto per chi arriva a Bologna: gli immigrati extracomunitari». Altrimenti i problemi esploderanno: è già successo il 14 dicembre scorso quando diversi gruppi organizzati (fra cui Piazza Grande, associazione per i senza tetto) occuparono, in via Altura, 8000 mq di un edificio destinato a residenza protetta per anziani. L’idea era di organizzare un centro polivalente. Si scelse infine lo sgombero, ma si disse di voler adottare provvedimenti «affinché le famiglie impegnate nell’occupazione potessero avere soluzioni alternative». Parole che sono rimaste nel vuoto, però. «Quell’edificio è ancora vuoto», testimonia Massimo Zaccarelli della Cooperativa “La Strada”. «Dopo otto mesi, 8000 mq sono ancora vuoti». Così chi non ha casa a Bologna, immigrati in testa (15 mila in città tra regolari e in attesa di sanatoria), trovano da un lato case sfitte – e costose, per redditi medio/alti – e dall’altro strutture di prima accoglienza spesso inferiori ai bisogni: o troppo basilari come dormitori, o troppo costose come pensioncine da 40/50 mila lire a notte. Sulle conseguenze di questa situazione non perdono poi occasione di speculare i giornali locali che, per ricavarci qualche polemica e qualche (e)lettore in più, s’inventano pagine al limite del pregiudizio razziale, o che della complessità sociale di Bologna danno un’immagine e quindi un messaggio chiarissimi: “Riprendiamoci la città!” titola ogni settimana il Resto del Carlino in una seguitissima rubrica. Ma riprendiamocela da chi? Chi ce l’ha mai rubata ‘sta benedetta città-mito? L’immigrato? Certo, in una situazione in cui il 70% degli immigrati lavora (secondo un’indagine del Comune), ma il 43% lo fa in modo irregolare, preoccupa in primo luogo che il 47% viva in sistemazioni abitative precarie, e che 3 immigrati su 10, in città da più di 10 anni, non abbiano ancora un alloggio stabile. Ogni sera a Porta Saragozza, alla mensa di via S. Caterina, si ritrovano in cento; i senegalesi trovano riparo al centro di prima accoglienza Cartani; i magrebini dormono al Centro Stalingrado (Bologna la Rossa…), 250 posti. Adriana Bernardotti dell’Isi (Istituzione dei servizi per l’immigrazione) conferma che tanti sono costretti a vivere in tuguri per cui spendono anche 400 mila lire al mese a testa, magari al quartiere la Bolognina (residenza di eritrei, etiopi e cinesi). Tanti firmano contratti insostenibili solo per richiedere il ricongiungimento famigliare, ma si trovano poi, insieme a tutta la famiglia, sulla strada oppure a cercare affitti meno cari nella cinta metropolitana o in provincia, dove, però, scarseggiano servizi e lavoro e da cui sono nuovamente costretti a partire alla volta della città. Ma Bologna, come tanto Nord Italia, anche se potesse non vorrebbe scacciarli del tutto, «gli extra»: è questa la verità che gli imprenditori dicono ancora sottovoce e che grida invece a pieni polmoni la Legacooperative. «Molte cooperative», tiene a sottolineare Alberto Alberani di Legacoop, «hanno assunto extracomunitari. Manutencoop, su 3000 dipendenti ne ha 200 di origine magrebina; la Camst ha assunto 80 pakistani». Gli immigrati, dunque, servono. Sono necessari per invertire la tendenza demografica che condanna Bologna al rapido invecchiamento (100 mila ultra 65enni su 381.000 abitanti, quasi un terzo) e servono a una pressione fiscale che, se si vuole mantenere uno stato sociale preso a modello da tutti, sarà sempre crescente. Servono infine perché nell’Italia che lamenta il flagello della disoccupazione sono molti i mestieri che i dotti bolognesi non intendono più fare. Questi lavori sì, sono invisibili, un’invisibilità che però – continua Adriana Bernardotti – è tale perché «non crea problemi, come l’assistenza a domicilio. La comunità filippina a Bologna è ormai grande come quella marocchina, ed è a loro che anziani e no si affidano per l’assistenza». Ma anche qui le ombre non mancano. Basterebbe fare un giro a piazza Nettuno, dove la comunità filippina si ritrova ogni domenica, per scoprire che le colf e le assistenti domiciliari in nero sono ben di più delle 815 “regolari” seguite da Api, Acli e Caritas. «Un tempo la povertà stava ferma, era visibile, mentre oggi si è messa in moto, così le soluzioni da prendere si devono adeguare per gruppi diversificati e in mutamento», suggerisce Eugenio Ramponi (Arci), portavoce del Forum provinciale del Terzo settore di Bologna. «Bologna non è un’isola felice, l’esclusione sociale la colpisce come qualsiasi media o grande città. La differenza è che qui non ci si è abituati. Così una semplice inversione di tendenza spaventa gli stessi bolognesi». E anche se qualcuno non ci crede («La socialità in calo negli ultimi anni? La gente si lamenta quando il brodo è troppo grasso!», scherza Luca Ladini, dell’Anpas), il disagio quasi epidermico sbuca fuori da dove meno ce lo si aspetta. È Elda Ferri, produttore di “La Vita è bella”, e leva del Pci dei tempi d’oro che parla: «La prostituzione è diventata più sfacciata che a New York. Ho visto coi miei occhi, nella centralissima via D’Azeglio, donne seminude che adescano i passanti. È stato uno choc. Ho la sfortuna di avere casa a 200 metri dalle due Torri, nel cuore di Bologna. Se provi a uscire di sera ti molestano, ti aggrediscono, ti scippano. No, è inutile nascondersi che c’è un problema di immigrati. Siamo arrivati probabilmente a un numero troppo alto. Non dico che bisogna rimandarli indietro, ma saperli gestire sì. Invece si è lasciato lievitare il fenomeno dei “vu’ cumpra’” facendo impazzire i commercianti…». Paura insomma ce n’è. Paura che Bologna non sia più Bologna, che – vero o falso – la città non rispetti più il suo mito. Un mito composto anche da ben 57 associazioni straniere interetniche, servizi diversificati, operativi grazie all’impegno di un Terzo settore che, anche se un po’ frastagliato, chiede al Comune più impegno. La Città multietnica, Zero Tolerance, Bologna Sicura, ma anche una città anziana che si affida facilmente ai successi dei blitz (l’ultimo il 22 luglio: 40 persone in Questura senza permesso di soggiorno e 6 nordafricani espulsi), e che oggi discute la proposta dell’assessore alle Attività produttive di chiudere la città ai non residenti senza un lavoro. Così la nuova Giunta dà una prima risposta a quella paura su cui aveva fondato la sua campagna elettorale. La città ancora sonnecchia nel pieno delle ferie estive, ma già ci si chiede: «È questo il modo giusto con cui rispondere alle sfide di una società multietnica?». Perché Jovanotti sì e il Terzo settore no? Il 20 novembre 1995 il Consiglio dell’Unione Europea aveva designato anche Bologna quale “città europea della cultura” per il 2000. Nasce così l’evento “Bologna 2000” cui fa capo un Comitato omonimo composto da Comune e Provincia di Bologna, Regione Emilia Romagna, Camera di Commercio, Governo e l’immancabile Università degli Studi della città. Ma a guardare le linee base del progetto e le scelte adottate fino ad oggi sembra che associazionismo e Terzo settore in generale siano stati quantomeno trascurati, anzi, meglio, esclusi. Basta sentire quanto ha dichiarato Umberto Eco, referente per l’università del progetto “Bologna 2000”: nei suoi progetti l’anno prossimo si dovrebbe svolgere una “maratona di lettura” per tutta la città, e una capillare diffusione delle competenze telematiche per tutti. Ma alla domanda sulla solitudine, sugli anziani, un terzo della popolazione, o sui problemi sociali, Eco risponde sornione «Ma certo, come tutte le novità, anche questa richiederà la risoluzione di altri problemi e allora si inventeranno modi per socializzare». Sì professore, ma quali? E chissà che ne pensa Jovanotti, confermato dal sindaco Guazzaloca come testimonial per i giovani di “Bologna 2000”. Il Terzo settore bolognese, dovrà rimanere alla porta ad aspettare che gli eventuali e probabili problemi sociali, come dice Eco, trovino in qualcuno, un giorno, l’impegno e la creatività necessari per avere una soluzione? (r.b.)


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