Sostenibilità

Global warming o climate change? Come un uomo ha cambiato il discorso pubblico sul clima

Le parole di cui ci serviamo veicolano senso, inquadrano un problema, diffondono visioni del mondo. Aiutano a trovare soluzioni o a non trovarne affatto, come dimostra la singolare storia di Frank Luntz che vent'anni fa inventò l'espressione cambiamento climatico per evitare che si discutesse di riscaldamento globale

di Marco Dotti

Parole che operano

Le parole sono importanti. Quante volte ce lo siamo detti. Quante volte ce lo siamo sentiti dire. Le parole sono importanti. Ma continuiamo ad abusare delle parole. Le maltrattiamo. Peggio: le sottovalutiamo.

Il nome di Frank Luntz dice poco a chi non si occupa di #comunicazione #politica. Eppure Luntz è un mago delle parole. Words that work, parole che agiscono è il titolo di un suo best seller. Che come sottotitolo ha una massima diventata famosa: «non è quello che dici a contare, conta quello che la gente ascolta».

Oggi il#clima è diventato un tema prioritario nell’agenda sociale e politica. Un po’ di archeologia delle parole non fa male, anche su questo tema. Ci serve per capire. Per capire cosa diciamo. E se stiamo davvero dicendo la stessa cosa quando usiamo la parola "clima".

L'ordine e il disordine del discorso

Siamo nel 2002 e George W. Bush è il 43° Presidente degli Stati Uniti. Arrivato da un anno alla Casa Bianca, ha un problema: come minimizzare la questione ambientale.

Si capisce: il riscaldamento globale è stato al centro della campagna del suo sfidante Al Gore e, anche se la corsa per la presidenza è stata vinta, quel tema si è inserito nel discorso pubblico e impone scelte precise. Ecco, allora, comparire Luntz. E Luntz, lo abbiamo detto, è un mago delle parole. Gioca con le parole, se ne serve. Ma non crea slogan. Per quello basterebbe un pubblicitario. Luntz crea cornici, definisce gli ordini e i disordini del discorso, costruisce regimi di verità. Insomma: tira un cerchio dentro il quale le idee – tutte le idee, uguali o contrarie – si muoveranno. Ed è un maestro del framing.

Una volta inoculato nel discorso pubblico lo schema, il cerchio, la cornice (chiamiamola come ci pare) sarà il campo di gioco. Impossibile per giornalisti, opinion makers, gatekeepers di ogni sorta rompere lo schema. Uscirebbero dal campo e di loro perderemmo ogni traccia: è la logica ferrea del conformismo intellettuale.

Reshaping the messenger, reframing the message

Ma che cosa fa Frank Luntz? Dice «stop, siamo in crisi». E disegna un nuovo campo di gioco. Basta parlare di global warming. Riscaldamento globale è una metafora forte, troppo forte. Una metafora capace non solo di descrivere fedelmente una realtà, ma di lasciar trasparire con immediatezza le sue implicazioni e le cause altrimenti complesse che determinano quella realtà: il pianeta è al collasso e noi ne siamo responsabili. Tutti conoscono il caldo e tutti, per esperienza, capiscono quanto il caldo possa togliere forza, energia. Respiro.

Luntz allora decide di alterare il quadro di questa esperienza. Come? Alterando per sempre il discorso pubblico sul clima. Agisce nell’ombra? Non troppo. Agisce piuttosto sullo schema di gioco e lascia che i giocatori, soprattutto gli avversari inconsapevoli, giochino a un gioco di cui presumono di conoscere le regole. Non è così.

A partire dal memorandum strategico elaborato dal gruppo di lavoro di Luntz, significativamente intitolato Environment: A Cleaner, Safer, Healthier America, nei discorsi del Presidente, negli interventi dei suoi collaboratori, in quelli sui media più vicini e, con un effetto domino, anche su quelli politicamente più lontani non si parlerà più di global warming. Si parlerà di climate change.

Nel suo memo Luntz è chiaro. Conosce le cose di cui parla, conosce i suoi interlocutori. Ma soprattutto sa come fare per cambiare le carte in tavola. O, meglio: cambia le carte, ma anche la tavola. Gioca per il banco e lo fa per vincere.

Il dibattito scientifico sul clima, scrive Luntz, «si sta chiudendo ed è contro di noi. Ma non è ancora chiuso, c’è ancora uno spiraglio e un’opportunità».

Il suggerimento di Luntz è quello di non fare il muro contro muro, ma di insistere sulle incertezze scientifiche in tema di riscaldamento globale, dando l’idea che la comunità scientifica non sia tanto coesa. Questo perché, spiega, gli elettori credono che per chiudere definitivamente il discorso e agire serva il consenso di quella comunità: «è allora necessario continuare a fare della mancanza di certezza scientifica una questione primaria nel dibattito». Insistere sull'incertezza permette di non agire o di agire in peggio, senza che questo sia percepito come tale.

La metafora del riscaldamento globale evoca una responsabilità condivisa. Per Luntz serve dunque un radicale #reframing del dibattito sulla #climatescience. Una riconfigurazione cognitiva tale da permettere di passare dal #globalwarming, ossia dalla certezza di un mutamento in peggio delle temperature al #climatechange. ossia all’eventualità di un cambiamento del clima ma senza una responsabilità per gli esseri umani.

Deresponsabilizzare gli uomini

Il linguista George Lakoff ha notato che la parola "clima" è stata probabilmente scelta da Luntz perché capace di evocare «qualcosa di piacevole», come una spiaggia o delle palme al mare. Il linguaggio di Luntz, spiega Lakoff, è di tipo orwelliano. Ma Luntz «non si occupa soltanto di linguaggio. Sa bene che un linguaggio corretto parte (…) da un corretto inquadramento del problema, che rifletta una prospettiva»[1], in questo caso una prospettiva non propriamente ambientalista. Ma le teorie di Luntz non riguardano soltanto il linguaggio. Riguardano una visione del mondo.


Non è quello che dici a contare, conta quello che la gente ascolta

Frank Luntz

Per lui le idee vengono prima delle parole. Per questo Luntz non è un pubblicitario o un consulente di marketing politico. Ma quelle idee derivano da una visione del mondo. Poiché quelle idee derivano da una certa visione del mondo, le parole che ne conseguono non possono che riflettere quelle idee e rimandare – in forme sottili, non percepibili, diciamo così, al tatto – a parole che a loro volta confermano una visione del mondo.

Cambiamento climatico è un’espressione apparentemente neutra. Mette in relazione le parole e le cose. Quali parole? Quali cose? Chi se lo chiede è già fuori. Nei fatti, è una metafora straordinariamente adatta a chi volesse insinuare che le incertezze relative alle scienze del clima non permettono di prendere decisioni drastiche e di assumersi responsabilità univoche.

Il fatto che anche attivisti e ecologisti abbiano iniziato a usare la metafora del cambiamento climatico, abbandonando completamente quella del riscaldamento globale è il segno che le parole creano stati di cose, situazioni, orientano e disorientano il nostro agire. Tengono ferma la palla al centro. La tengono ferma per anni. Poi si passa ad altro.

D’altronde… It’s not what you say, it’s what people hear.

Post Scriptum: una conversione tardiva

Il 25 luglio 2019, di fronte a una piccola commissione di senatori democratici, nel corso di un dibattito dedicato alla «cosa giusta da fare», The Right Thing To Do: Conservatives for Climate Action, Frank Luntz ha raccontato una storia. La sua casa, in California, ha preso fuoco; Sono arrivati i vigili del fuoco, «mia hanno salvato la casa. Ma non tutti sono così fortunati». Perché? Perché «l''innalzamento del livello del mare, lo scioglimento delle calotte di ghiaccio, i tornado e gli uragani sono più feroci che mai. Sta accadendo».

Che cosa gli è successo? Una conversione tardiva e fuori tempo massimo. O, semplicemente, un tentativo di ritrovare un ruolo nel frattempo perduto? Quello che ha fatto, ha detto Luntz, lo ha fatto «una vita fa. Oggi sono cambiato». E, oggi, Luntz vorrebbe aiutare i Democratici americani a riconfigurare il discorso sul clima. A una condizione, chiede Luntz: che le politiche vengano anteposte alla politica («policies ahead of politics»).

Luntz non è il solo convertito nella lotta contro il clima e la sua posizione sta facendo discutere. Dave Levitan, su The New Republic, osserva che esistono responsabilità chiare e precise su chi ha permesso che si arrivasse a questa situazione di non ritorno. Gli agenti della negazione, osserva Levitan, dovrebbero essere chiamati a rispondere del caos che hanno seminato. Le parole, d'altronde, sono importanti e talvolta sono pietre.

Note

[1} George Lakoff, Don’t think of an elephant! Know Your Values and Frame the Debate, 2004, p. 41.

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