Welfare

Orso M49, ovvero la disfida fra globalismo senza identità e localismo senza coscienza

A confronto due correnti contemporanee e il loro imbarazzante conflitto. Da una parte la consapevolezza urbana di un globalismo senza generi, luoghi e identità che suggerisce di salvare l'animale per principio, seppure impotente (pensieri forti di fronte a soluzioni deboli). Dall'altra parte la cultura rurale di un localismo ormai analfabeta che urla di sparargli a memoria, seppure incosciente (soluzioni forti di fronte a pensieri deboli). Riusciranno mai a parlarsi questi due mondi?

di Giovanni Teneggi

Parlavamo già da alcune mezz’ore. A casa di Giovanni, passati per un saluto, una volta seduti in conversazione finiva sempre così, ci si perdeva. Anche Erika, giovane donna madre e front della sua cooperativa, che del tempo per tutto questo mantiene una certa considerazione, era rimasta con noi. Quel pomeriggio scorreva lento: ogni parola che ci donava era ragione buona per attendere le altre e così io, Erika e Giovanni ci eravamo abbandonati volentieri a scorgene i suoni e rivelarcene quasi disordinatamente l’uno agli altri il senso. Si parlava preoccupati del paese e del suo inselvatichirsi: del piacere gratuito che porta con sé guardandolo dall’alto, da una generazione all’altra oppure ogni tanto, quando ti serve; della paura e delle crudezze incivili che è capace di rivelarti se lo guardi da vicino e lo cammini ogni giorno per abitarlo, anche quando serve a lui e agli altri che sono con te. L’imprevedibilità è tutta lì e quotidiana, non c’è regola di buona educazione che tenga quando in gioco la gente vede il vivere e la sua dignità. È la parte con la quale prima o poi devi fare i conti, quella che non controlli, quella selvatica.

Paesi e genti in cattività, sedotti da Stato e mercato e quasi subito loro prigionieri. A piede libero poi, fuggiti anche gli ultimi aguzzini. Come un orso evaso in alta montagna dopo una civile e promettente cattura. Fino a quando non ti insidia la casa è un fuggitivo da salvare e a cui dare il nome che vorresti anche tu. Umanizziamone pure la rappresentazione perchè non è difficile vederci tutti alla ricerca di un rifugio. Tutti smarriti, senza più luoghi dei quali poterci fidare. Ritorna l’istinto che pensavamo di avere superato e che non sappiamo più trattare. A confronto due correnti contemporanee e il loro imbarazzante conflitto: la consapevolezza urbana di un globalismo senza generi, luoghi e identità che suggerisce di salvarlo per principio, seppure impotente (pensieri forti di fronte a soluzioni deboli); la cultura rurale di un localismo ormai analfabeta che urla di sparargli a memoria, seppure incosciente (soluzioni forti di fronte a pensieri deboli).

Bisogna che queste generazioni si parlino. Che la coscienza della Terra, per quel che sappiamo finalmente di lei, faccia i conti con la conoscenza della sua umanità, per quello che abbiamo dimenticato troppo velocemente. Abbiamo interessi, aspirazioni, paure, bisogni identitari profondi, vogliamo case e rifugi. Abbiamo mani e piedi non più abbastanza ruvidi e callosi per quanto dichiariamo di volerne la pace. Il primo passo a chi ne ha più coscienza e vuole scrivere storie nuove nelle cui pagine leggere della riconciliazione con il vivere comune su una stessa terra. L’impresa di sempre. Non se ne rimuovono gli ostacoli fuori dalle piazze e senza grani di terra sotto le unghie che sfogliano libri.

In paesi toscani delle metallifere ho conosciuto giovani consapevoli che reclamavano quella terra come loro, d’uso e cultura, di fronte agli ultimi rurali, suoi eredi legittimi da più di una generazione. Erano arrabbiati. “Non ne traggono nulla – dicevano – se non per logori usi e ognuno sul proprio, tenuto anche per niente. Al bar, quando è aperto – continuavano a dire – non sanno parlare che imprecando sopra a vinacci di caccia e carni squarciate, motori a gasolio, donne buone solo in cucina e stranieri a sudare”.

Erano giovani sinceri e belli davvero. Non sono riuscito a convincerli che sepolto sotto quella durezza si conservava un filo da riprendere per ritrovarsi con quella gente a parlare anche d’altro. Con la storia bisogna farci i conti e se siamo interessati alle persone che contiene dobbiamo trovarne la parola prima che la loro cattività ci metta in fuga o ci sbrani. Possiamo farlo nella clandestinità e grazie a contrabbandieri innamorati. Passeurs.

Parlando di lupi si può anche ridere in compagnia. Nei paesi accade tutte le volte che qualcuno in città se ne spaventa vedendone uno troppo vicino alla sua civiltà. Solo allora dalla parte del lupo. In realtà non è mai lecito scherzare o ridere di lupi nei bar di montagna. Evocarlo incupisce la voce di chi lo fa e zittisce quelli che ascoltano. Del lupo non si può ridere se si pensa alle bestie, alle stalle e alle aie che sono anche tue e se sei di montagna non lo fai mai. Ne ridi solo se un turista dice di esserne stato inseguito tornando dal monte oppure leggendo sui giornali di sindaci della bassa preoccupati per avvistamenti nei giardini di casa. Grazie a quei lupi maleducati ci si è ricordati finalmente che esiste una montagna alle spalle delle città. Se non è abitabile da cose buone ne verranno di spaventose. La montagna è selvatica: come il suo cielo che ti obbliga ad aspettarti di tutto, i suoi torrenti che diventano piene. La sua gente è capace di risponderti male se la richiami a tenersi i suoi lupi. “In bocca al lupo” non glielo puoi dire e se ti risponde “viva!” lo ha imparato in città e se la vuole tirare. Il selvatico non lo compri, non lo raggiri con un comunicato stampa, non lo controlli con un censimento o un radiocollare. Non lo puoi nemmeno rimandare a scuola a cinquant’anni. Se ti interessa il suo devi amarlo, scoprire che sei uno dei suoi e, con lui, volerti ritrovare anche tu.

“Eccoli che scappano!”. Erika ci sorprese improvvisamente alzando lo sguardo fuori tra la finestra e gli alberi dietro la casa. “E’ più forte di loro, mi scappano per andare nel bosco, ogni scusa è buona e nemmeno gli serve per davvero. Vedrete che vanno a prugnoli, adesso è così, da quando glieli ha insegnati mio padre non si tengono più, se ne vanno di nascosto appena li lascio e di ritorno trovo la frittata già fatta. Ragazzi selvatici”.

Io e Giovanni la guardammo sorridendo, e anche lei guardò nuovamente fuori allo stesso modo: l’esclamazione improvvisa che poteva sembrare addirittura un rimprovero ne malcelava invece una lieve soddisfazione. Selvatico, inflesso da una madre di paese, è il più bel complimento che si possa rivolgere a un figlio ancora bambino. Per chi è venuto su così i ricordi più profondi sono quelli fuori dalle regole. Dei pomeriggi nei quali qualcosa attorno ti ha preso e ti ha fatto inesorabilmente suo. Un nonno non tuo, uno stagno, una volpe domestica, il vento sopra di te, il suo gioco con le cornacchie, il segreto di un ruscello che sarai tu a rivelare risalendolo oltre i suoi limiti. Ne cerchi le storie e il loro ascolto ti rende sordo alle regole imposte e al galateo convenuto lontano da lì. Il creatore sei tu.

Le madri di montagna, anche le nonne, conservano un segreto educativo profondo nel filo invisibile che le lega a figli che se ne vanno per boschi prima dei compiti. Mio padre era uno di questi. Quel filo lo ha lasciato andare per quanto occorreva e lo ha riportato a casa ogni volta che doveva essere fatto. Tutto quello che so di come vive un paese l’ho imparato da quello che fa. La terza elementare se l’è guadagnata facendo la legna per la stufa della scuola. La legna, la vita e quei fili lo hanno laureato in paesologia. Un ragazzo selvatico. Paesologo lui lo è per davvero.

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