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Zamagni: Il Terzo settore ora esiste
L'approfondimento sui contenuti della Riforma di Stefano Zamagni, uno dei più importanti teorici dell'economia civile e già presidente dell'Agenzia per il Terzo Settore, pubblicato sul numero di VITA Bookazine in edicola e nei Mondadori Store dal titolo “Da terzi a primi. Tutto sulla riforma del non profit”
Il 25 maggio 2016 il Parlamento italiano ha approvato la legge Delega governativa sulla Riforma del nostro Terzo settore. Si tratta della prima riforma organica di questo mondo vitale dal dopoguerra ad oggi. È questa una novità che non può essere sottaciuta. Avanzo tre buone e robuste ragioni per esprimere soddisfazione nei confronti di questa legge.
La prima è che questa Riforma sancisce, in modo definitivo, il passaggio dal cosiddetto regime concessorio a quello del riconoscimento. L’autorità pubblica non deve più concedere l’autorizzazione (o il permesso) agli enti di Terzo settore che intendono perseguire fini di utilità sociale. L’autorità pubblica deve piuttosto prendere atto dell’esistenza di una tale volontà ed esigere, come è ovvio che debba, il rispetto delle prefissate regole di comportamento, oltre che esercitare i necessari poteri di controllo (Cfr. art.2, c.1). Siamo di fronte ad una novità fondamentale, che afferma il principio secondo cui chi intende adoperarsi in vista del bene comune non deve attendere che qualcuno gli conceda l’autorizzazione — la quale deve invece essere concessa per “fare il male”, cioè per avviare attività o compiere azioni che generano esternalità negative, oppure che restringono la sfera di libertà di qualcuno. Un solo esempio per cogliere il punto: si deve chiedere la concessione per l’apertura di una nuova sala per il gioco d’azzardo, non per consentire ad un soggetto di svolgere quelle attività che la società giudica meritevoli di tutela perché generatrici di capitale sociale o di esternalità positive. (Si deve sapere che il Libro I, Titolo II del nostro Codice civile era, fino ad oggi, ancora quello approvato nel 1942. Da allora, i Libri dal II al V sono stati via via modificati, anche radicalmente, ma mai il libro I che si occupa appunto di fondazioni, associazioni, comitati).
La seconda ragione chiama in causa la nozione di biodiversità economica. Fino a tempi recenti, l’opinione prevalente, sia tra studiosi sia tra policy-makers, era che l’arena del mercato dovesse essere popolata soltanto da imprese il cui fine fosse il profitto, cioè da enti for profit. Si riconosceva bensì l’esistenza vantaggiosa di altri soggetti imprenditoriali, ma questi o venivano “tollerati” in quanto occupanti aree di nicchia oppure erano considerati come mere eccezioni alla regola (come nel caso delle cooperative). Era mancato, fino ad ora un pieno riconoscimento della cittadinanza economica a soggetti che operano dentro il mercato con logica imprenditoriale creando valore, ma con un fine diverso da quello del cosiddetto lucro soggettivo.
Cosa ci si può aspettare dalla piena affermazione del principio della biodiversità economica, e in particolare dal rilancio della forma dell’impresa sociale? (Cfr. art.6). Per un verso, l’avvio di un promettente processo di ibridazione tra profit e non profit — come ormai si usa dire. Se è vero che l’impresa for profit ha tanto da “insegnare” a quella non profit, soprattutto sul piano dell’efficienza organizzativa e produttiva, è del pari vero che l’impresa non profit ha altrettanto, se non più, da “insegnare” per quanto concerne la responsabilità civile dell’impresa; vale a dire l’accoglimento da parte di questa dell’idea che il fine ultimo dell’agire economico è il bene comune e non già il bene totale. La Riforma, meritoriamente incorpora alcuni marcatori di ibridazione (la parziale distribuzione di utili, l’ampliamento dei settori di operatività, modelli partecipativi di governance), contribuendo a consolidare un bacino di imprenditorialità sociale quanto mai necessario….
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