Economia

Educar(si) al lavoro: l’alternanza come strumento di una scuola che guardi alla “persona globale”

«Può oggi la scuola permettersi di essere un luogo di trasmissione di “conoscenze, abilità e competenze”, con qualche non organico periodico afflato etico legato a proposte spot sull’ambiente, l’affettività e così via, senza curarsi però degli alunni come “persone globali”? Oggi, nella scuola, questo interesse in parte c'è, ma demandato a singoli insegnanti con passione pedagogica. Ci vuole una scuola che si interessi “per professione” all’alunno come “persona globale”, accrescendo il proprio ruolo pedagogico verso gli alunni. Senza questo passaggio, la scuola non troverà nulla di interessante nell’alternanza»

di Chiara Ferrè, Luca Frigerio e Paolo Zuffinetti

Il dibattito attorno al tema scuola è ricco ed articolato, meno diffuso è un ragionamento che contemperi in una stessa riflessione pedagogica il portato dei due grandi sistemi formativi italiani, la scuola e la formazione professionale, mettendone in luce limiti ed opportunità.

Scuola e formazione professionale sono elementi coesistenti nel panorama della formazione/istruzione. Un binomio che racconta di genesi differenti, di sistemi di riferimento, istituzionali e culturali distanti. Due mondi che hanno maturato negli anni pensieri, filosofie, culture pedagogiche e di intervento raramente comunicanti. La scuola – non fosse altro che per ragioni dimensionali – ha spesso “occupato” il pensiero e la ricerca pedagogica, meno è stato per la formazione professionale che, salvo da alcuni “appassionati”, è stata meno indagata nel suo dispositivo pedagogico. Eppure quello della formazione professionale è un sistema ricco ed articolato, che per molteplici ragioni, sia di necessità che di virtù, ha generato delle pratiche ricche, articolate, innovative.

Se la formazione professionale è frequentata da allievi «poco disponibili alla scuola classica» e se questi allievi hanno negli anni trovato un loro percorso di crescita personale e professionale, il merito va, forse, ad un dispositivo che ha fatto della flessibilità (da non confondersi con il lassismo) il suo tratto distintivo. Se dovessimo pensare alla didattica, nella formazione professionale, il primo termine che viene in mente è ingegneria formativa: modelli rigorosi ma costantemente innovativi orientati ad ottimizzare le risorse disponibili in una logica di soluzione dei problemi. Ed è propria del ruolo dell’adulto nella formazione professionale una costitutiva attenzione pedagogica all’altro. Un’attenzione che genera un meccanismo di legame con tutti i soggetti chiamati e coinvolti nel processo educativo una relazione che, pur negli sbilanciamenti propri delle singole situazioni, si caratterizza per essere aperta e dialogante.

Un sistema di pratiche pedagogiche tanto presente e diffuso, laddove la formazione professionale è stata valorizzata, quanto poco indagato, valorizzato, tematizzato e messo a sistema per poter diventare risorsa per una riflessione complessiva sui sistemi scolastici in Italia. Il tema della necessità di una scuola aperta al territorio, sollevato dalla senatrice Iori, risuona nelle corde di un sistema che ha fatto della compenetrazione con la comunità territoriale un suo tratto distintivo.

Se potessi mangiare un'idea

Giorgio Gaber, in alcuni celebri suoi versi, cantava che «un’idea, finché resta un’idea è soltanto un’astrazione», e aggiungeva: «se potessi mangiare un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione». Quando provo a riflettere sull’attuale situazione della scuola e della formazione professionale in Italia, nelle sue diverse “questioni aperte”, mi ritrovo a vivere una sensazione prossima a quella del cantautore milanese.

A grandi linee, si può dire che nella scuola e nella formazione in Italia si stia cercando da anni, in modo per certi versi disarticolato e discontinuo (anche perché ogni nuovo Ministro “necessita” a priori di marcare assoluta discontinuità col precedente), di cambiare in modo radicale un sistema che, per poter evolvere, avrebbe bisogno di una vera e propria rivoluzione copernicana, intesa proprio in senso kantiano, che è lungi dall’intravvedersi (premetto che da un decennio lavoro nella Formazione professionale, e da questa prospettiva soggettiva sto scrivendo queste considerazioni).

Parlando nello specifico di Alternanza Scuola Lavoro, intesa qui in modo generico come il collegamento fra mondo della scuola e mondo del lavoro, vorrei sostenere due tesi. La prima è che il legame scuola-lavoro abbia, almeno nel mondo della formazione professionale, una sua indubbia valenza positiva. Cercherò quindi di mettere in rilievo quali siano, a mio avviso, gli elementi di forza di tale sistema, perfettibile e migliorabile come ogni cosa umana, ma ad ogni modo già oggi utile e da salvaguardare. Al contempo però, e questa è la mia seconda tesi, sospetto che, per come conosco la scuola secondaria di secondo grado italiana (indirettamente, non lavorandoci), affinché l’alternanza possa avere anche lì un qualche senso e una qualche utilità effettiva (ammesso e non concesso che questo sia un obiettivo desiderabile, elemento su quale nutro dei dubbi), sarebbe necessaria quella rivoluzione copernicana di cui parlavo poc’anzi, di non facile realizzazione.

L’alternanza, nella formazione professionale, sa incidere a mio avviso in modo significativo sulla crescita degli alunni, e lo fa in primo luogo per quanto concerne le cosiddette competenze trasversali: gli stage, anche quelli meno professionalizzanti, spronano gli alunni ad esempio a relazionarsi con adulti che “stanno lavorando”, negoziare con loro, lavorare sia in squadra che in autonomia, sviluppare strategie di adattamento e gestire lo stress. La rilettura dell’esperienza che in genere viene elaborata con i tutor e con i formatori, prima, durante e dopo lo stage, è inoltre un elemento prezioso per accompagnare gli alunni a riflettere sul proprio percorso di crescita, abituandoli a raccontare a se stessi il proprio vissuto ed utilizzando quel che imparano su di sé, per progettare i propri ulteriori passi di crescita. Tutto questo non è cosa di poco conto.

Penso inoltre che l’alternanza aiuti i nostri alunni anche in un secondo modo, meno formalizzato ma non per questo meno significativo. Questo secondo aspetto può essere colto ragionando per sottrazione: alcuni ragazzi, in stage, capiscono in modo chiaro che un certo settore, una certa professione “non fa per loro”, che se vogliono costruirsi un percorso professionale che li faccia stare bene devono rimettersi in discussione e capire in quale nuova direzione incamminarsi. Penso che questo elemento non vada sottovalutato, perché ritengo che nella scuola siano troppi gli studenti che, non avendo la possibilità di sperimentarsi “praticamente” nell’ambito formativo scelto, capiscono troppo tardi di aver sbagliato strada. L’alternanza aiuta, in altri termini, a capire anche “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, e a capirlo precocemente. Evidentemente, anche in questo secondo aspetto, i formatori sono essenziali nel loro lavoro di accompagnamento dell’alunno nella scoperta di sé, e un loro eventuale disinteresse o assenza indeboliscono fino all’appiattimento la proposta.

La formazione professionale, d’altronde, è una realtà affollata da adulti estremamente eterogenei fra loro, fra i quali però l’attitudine alla dimensione educativa, in parte per indole, scelta e vocazione, in parte per saggia e intuitiva comprensione del contesto, è piuttosto presente. Un formatore che abbia a cuore solo il trasferimento di informazioni dalla propria mente a quella dell’alunno, difficilmente regge l’impatto, specialmente a lungo termine, con la formazione professionale.

Concludendo quindi questo primo nucleo di considerazioni, direi perciò che l’alternanza ha una valenza specifica, nella formazione professionale, laddove concretamente essa riesce ad accompagnare gli alunni a maturare una serie di competenze, se non di tipo professionale (che comunque ci sono, anche se non sono oggetto di queste mie considerazioni), almeno di tipo trasversale. La presenza di un “occhio pedagogico”, spontaneo o formalizzato che sia, laddove esso esiste, è il vero elemento di forza di questo modello, per quel che tanto di positivo che esso produce.

Procedendo ora nel ragionamento, vorrei sottolineare come il principale elemento di debolezza del mondo della formazione professionale, già emerso implicitamente nelle righe precedenti, è la scarsa “disponibilità alla scuola classica” degli alunni: non solo per il debole desiderio di molti di loro ad apprendere e approfondire le proprie conoscenze in ambito culturale, ma anche perché sovente le stesse “conoscenze teoriche” del proprio settore non risultano essere “digerite” con particolare facilità.

Qui si innesta però un diverso tipo di ragionamento, che esula dall’argomento in questione: si tratta del fatto che i percorsi di formazione professionale sono, nella maggior parte dei casi, un ripiego, un luogo di recupero (o nel peggiore dei casi di “parcheggio”) di ragazzi fragili, sotto diversi punti di vista, i quali non reggerebbero in classe nei percorsi scolastici ordinari. Basti qui ripetere che sia le cosiddette “competenze di base” sia, sebbene in misura minore, gli aspetti più teorici delle competenze tecnico-professionali, sono indubbiamente meno rafforzate di quando si auspicherebbe. Sarebbe però possibile fare di più, a livello “scolastico”, nella formazione professionale? Mi chiedo, con un approccio pragmatico, se non si debba riconoscere che, a parità di investimenti, non si possa pretendere di “rafforzare bene tutto”: forse spendere più energie su alcuni elementi (il laboratorio e l’azienda), ne fa inevitabilmente declinare altri (la classe).

Questa considerazione mi accompagna alla seconda tesi precedentemente enunciata: la scuola ordinaria è organizzata su un modello più simile al “trasferimento delle informazioni” dall’insegnante (notare il cambio lessicale: da formatore a insegnante) al discente, e a fatica sta cercando di virare verso un modello che si discosti dalla classica lezione frontale “cinque ore su cinque”, giusto o sbagliato che sia. Sottolineo che non è mia intenzione qui esprimere un giudizio sul confronto fra scuola classica e varie proposte di Scuola 2.0. In realtà, più che tracciare analisi, viste le mie esigue conoscenze di tale scuola, vorrei quindi proporre alcune domande.

I nostri studenti crescono in contesti sempre più complessi, spesso senza “luoghi pedagogicamente significativi” perché istituzioni come oratori e parrocchie, gruppi formali o informali, associazioni politiche… sono scarsamente presenti nella vita degli adolescenti, e le famiglie tendono a delegare alla scuola compiti educativi che essa non riesce ad affrontare. La scuola è consapevole dell’importanza della dimensione educativa che, inevitabilmente, le è demandata? Può oggi la scuola permettersi di essere un luogo di trasmissione di “conoscenze, abilità e competenze”, con qualche non organico periodico afflato etico legato a proposte spot sull’ambiente, l’affettività e così via, senza curarsi però degli alunni come “persone globali”? La mia impressione è che, ad oggi, nella scuola questo interesse in realtà in parte ci sia, ma sia demandato a singoli insegnanti con passione pedagogica, non sempre portatori di un bagaglio di competenze effettive a supporto del positivo impulso che li anima.

L’alternanza diventa uno strumento incisivo laddove la scuola “in toto” si prende carico di questo ruolo. Per essere chiari, la scuola potrebbe anche da un lato prendersi carico di questo e dall’altro non considerare comunque l’alternanza uno strumento significativo, ma trovando altre vie per farlo.

L’alternanza funziona solo laddove è la scuola che fa lo sforzo di guardare al territorio e costruire relazioni con il mondo del lavoro negli interessi educativi degli alunni. Non si può pensare che le aziende sappiano avere una “vocazione pedagogica” e al “parcheggiare” gli alunni nelle aziende, preferisco il trattenerli in classe


Ad ogni modo ecco la rivoluzione copernicana: arrivare ad una scuola che si interessi “per professione” all’alunno come “persona globale”, accrescendo inevitabilmente il proprio ruolo pedagogico verso gli alunni. Senza questo passaggio, la scuola non troverà nulla di interessante nell’alternanza, perché non troverà le forze per far sì che le esperienze di stage evitino di essere una forma di sfruttamento e dunque vedrà naufragare ogni progetto in tal senso.

Penso, in altre parole, che l’alternanza funzioni solo laddove è la scuola che fa lo sforzo di guardare al territorio e costruire relazioni con il mondo del lavoro negli interessi educativi degli alunni. Non si può pensare che le aziende sappiano avere una “vocazione pedagogica”: personalmente, al “parcheggiare” gli alunni nelle aziende, preferisco il trattenerli in classe.

Un’ultima domanda, per ribaltare la prospettiva: è davvero desiderabile che la scuola si interessi agli alunni come “persone globali”? È una domanda terribilmente complessa. In caso di effettiva “rivoluzione copernicana”, vedo infatti il lontano rischio di ricadere in una sorta di scuola da “Stato etico” hegeliano, nel quale cioè, in forza di un modello educativo presente e forte, si arrivi a proporre, di fatto, un’idea “non plurale” di cosa significhi “diventare adulti”, se non a livello statale, quantomeno a livello di orientamenti etico-morali delle diverse realtà scolastiche. Questo almeno è un rischio che, in un’epoca terribilmente illiberale come quella che stiamo vivendo, potrebbe palesarsi all’orizzonte. Il modello della formazione professionale, attuato spesso da volenterose e generose agenzie educative religiose o socialmente e politicamente connotate, contiene in sé croci e delizie di quanto accennato in queste ultime righe. Davvero, se potessimo mangiare un’idea, avremmo fatto la nostra rivoluzione.

Un compito reale occasione di competenza

Diceva Primo Levi che «l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono».

Il mandato educativo politico della scuola, innanzitutto pubblica (“o demandata alle regioni” come è per la formazione professionale) resta a mio avviso la prima e fondamentale essenza e radice della scuola stessa. L’educazione politica al lavoro come compito evolutivo, sociale e in sé azione prioritariamente politica (come servizio rivolta alla polis e contemporaneamente come espressione generativa dell’uomo-cittadino) costituisce uno degli aspetti a mio avviso più immediati e insieme sfidanti in cui questo mandato diviene prassi.

Quello che accade nella formazione professionale – che più da vicino, rispetto ad altri percorsi formativi, fa toccare mondo della formazione e mondo della vita – è (sicuramente negli intenti progettuali, ma concretamente posso testimoniare che lo sia nella pratica) proprio questo: far fare esperienza e palestra del lavoro (attraverso, certamente, un lavoro) ai ragazzi-studenti e attraverso ciò sperimentarsi individualmente come futuri cittadini.

La ricerca di un proprio lavoro, sufficientemente buono, (uno di quelli che porti, come ricorda Primo Levi, vicino alla felicità) passa attraverso questo tirocinio di pratiche che è l'Alternanza Scuola Lavoro (per questo è essenziale che le esperienze di alternanza siano più d’una) e la scuola superiore deve dare, dentro di sé, spazio a questa esperienza facendola dialogare con i saperi.

Nella formazione professionale l’alternanza è un luogo e uno spazio concreto (in alcuni percorsi le ore dedicate allo stage arrivano ad essere la metà del monte ore totale), non isolato (l’esperienza è preparata, monitorata e rielaborata con un apporto di tutte le discipline scolastiche) e soprattutto reale (nella maggioranza dei casi “si fa davvero e per davvero”, il compito è reale e l’apprendimento situato). Il portato è sempre molto ricco e fecondo sia per il ragazzo che, cosa non affatto scontata, per i docenti, per la classe (coinvolta nella preparazione, nel monitoraggio e nella rielaborazione dell’esperienza); certo, richiede spesso un lavoro ad hoc, sartoriale, specifico.

Tra gli elementi interessanti che potrebbero generare prassi contaminanti:

  • nell’alternanza lo studente-ragazzo è davvero protagonista. È lui che fa, conosce, sperimenta direttamente una realtà che gli altri (i docenti e i compagni) non conoscono e non sperimenteranno. È lui che viene a contatto con un sapere non veicolato necessariamente in forma propedeutica all’apprendimento e, insolitamente nella scuola se si eccettuano li momenti di verifica, è da solo. Questa “solitudine” diventa protagonismo e possibilità di giocarsi diversamente;
  • il mondo della vita (di cui il lavoro è parte consistente) costituisce un’occasione che stimola lo sviluppo di competenze autoriflessive e metacognitive sul proprio operare, sull’etero e auto percezione e inevitabilmente riporta come tema forte la progettualità futura e insieme i vincoli e le ricadute materiali della propria intenzionalità e dell’impegno (in primis gli orari, le ferie che “maturano”, il valore salariale di ciò che si fa). Insomma lavorando si può imparare a progettarsi oltre che a progettare;
  • sperimentando il contesto lavorativo ci si forma alle e nelle relazioni che, diversamente da quelle famigliari/amicali e da quelle in ambito scolastico, non necessariamente presuppongono una conoscenza e la reciproca comprensione (basti pensare a possibili clienti) ma richiedono di superare alcune ritrosie, fragilità, irrequietezze, diventando meno “materne” e più adulte e paritarie;
  • l’adulto che accompagna (ed è questa la figura educativa e pedagogica o la competenza che diviene essenziale) diversamente dagli altri due contesti (la scuola: dove il docente è soprattutto detentore di conoscenze e abilità trasmissibili e l’azienda: dove il lavoratore possiede perizia e professionalità) non sa, ma accompagna, fa da controcanto, media (anche e soprattutto fra gli adulti). Deve essere formato a facilitare più che ad insegnare e per fare ciò deve lasciare spazio (quest’ultimo “passo” occorre apprenderlo consapevolmente, risulta difficile improvvisarlo soprattutto al fianco di un adolescente…). Il suo compito si imbastisce nella situazione, ma necessita di strumenti nuovi da creare e soprattutto di un approccio diverso, consapevole, con competenze nuove;
  • infine occorre intendere questo experimentum, questo lavoratorio (termine involontariamente creato da un mio alunno anni fa che ben rende, pur nella sua scorrettezza morfologica, l’idea di cosa sia l’alternanza), affinché sia efficace, come un luogo terzo e altro che sia ponte fra i due mondi, con diverse strutturazioni, modalità di relazione e contatto, flessibilità. Un luogo che “stia disposto in orizzontale, nell’intento che” non in una logica del “prima…dopo…” qual è quella che spesso caratterizza la distanza fra scuola e lavoro.

La ricerca di un proprio lavoro, sufficientemente buono, (uno di quelli che porti, come ricorda Primo Levi, vicino alla felicità) passa a mio avviso attraverso questo tirocinio di pratiche (è essenziale che le esperienze di alternanza siano più d’una) e la scuola superiore deve dare, dentro di sé, spazio a questa esperienza facendola dialogare con i saperi.

NDR. L'articolo è stato scritto a sei mani, anche se i tre autori hanno redatto ciascuno una parte specifica del testo. Questo è il motivo per cui ci sono riferimenti in prima persona singolare.

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