Mondo

Migrazioni, presidente Astalli: “La società civile è più avanti delle istituzioni”

Intervista a padre Camillo Ripamonti, di ritorno dall’incontro semestrale con tutte le congregazioni gesuite d’Europa che operano con i rifugiati. “La situazione è preoccupante, la politica chiude frontiere. Ma non bisogna smettere di chiedere percorsi di ingresso legali, altro che accordi con Turchia o altri Stati dove i diritti umani non sono rispettati”

di Daniele Biella

“La società civile non è affatto appiattita sulle decisioni della Fortezza Europa di chiudere le frontiere a chi fugge da guerre e privazioni”. Ne è sicuro, dati alla mano, padre Camillo Ripamonti, dal 2014 presidente del Centro Astalli, servizio dei gesuiti che dal 1984 opera per l’accoglienza dei rifugiati e oggi segue, attraverso progetti Sprar – Servizio protezione richiedenti asilo e rifugiati, "lo strumento migliore per l'accoglienza, dove i Comuni sono capofila e quindi coinvolti e responsabilizzati nel gestire l'accoglienza in modo virtuoso anche pe ril territorio", 150 persone a Roma 80 a Trento e 40 a Palermo. Quando raggiungiamo Ripamonti è appena atterrato da Bruxelles, dove ha incontrato i referenti di tutte le strutture europee (tra esse Spagna, Inghilterra, Grecia, Ungheria, Croazia, Svezia, Germania, Francia, Portogallo, Slovenia) della congregazione religiosa che operano con chi chiede protezione internazionale.

In Italia il sistema dell’accoglienza, seppure non esente da critiche, è operativo e le porte rimangono spesso aperte. Cosa le hanno raccontato i colleghi degli altri Stati europei, dove le frontiere sono invece chiuse da mesi?
Molte testimonianze hanno confermato il dato di fatto che siamo davanti a una situazione preoccupante, che rispecchia la chiusura ad accogliere delle politiche nazionali ed europee. Detto questo, e comunque ammessi i mal di pancia di una parte dell’opinione pubblica – anche in Svezia, per esempio, dove fino a poco tempo fa tutta la popolazione era favorevole all’arrivo dei profughi – quello che emerge è una società civile assolutamente viva, che segna il passo alle istituzioni. Il caso di Spagna e Portogallo è emblematico: una volta saputa la necessità delle relocation, dei ricollocamenti (il trasferimento di 160mila richiedenti asilo in quattro anni dallo Stato membro di primo approdo come Grecia e Italia a un altro: dopo un anno si è solo a quota 5821, vedi i dati ufficiali aggiornati al 28 settembre, ndr), almeno un migliaio di famiglie hanno dato la loro disponibilità. Ma a causa della complessità del sistema, ovvero intoppi e lungaggini burocratiche, eccetto 200 casi per il Portogallo e anche meno per la Spagna, per la maggior parte di loro l’accoglienza non si è concretizzata, generando disillusione. E rendendo sempre più ardua l’attesa di mesi e mesi delle famiglie nei campi profughi in Grecia, per esempio.

Si intravedono segnali di cambiamento a livello di politiche europee?
Il problema è che i cambiamenti sembrano andare in una direzione peggiore di quella attuale. Prendiamo l’ipotesi di riforma del sistema europeo di asilo, che prevede il superamento del Trattato di Dublino, per esempio: è stata pensata per alleggerire il peso dei Paesi d’arrivo, dove il migrante oggi è costretto a rimanere per chiedere asilo senza tenere conto dei legami che potrebbe avere in altri Stati. Di fatto, il meccanismo previsto è talmente contorto che rende ancora più faticoso lo spostamento dalla nazione di arrivo.

Ci sono altre soluzioni?
Sì, e sono quelle che chiediamo da tempo, non solo noi: percorsi di ingresso legali, visti umanitari, accelerazione della creazione di corridoi umanitari sulla base di esperienze che già funzionano, come quelle messe in atto da Comunità di Sant’Egidio e Tavola Valdese per i rifugiati siriani dal Libano all’Italia.

Invece si parla, Angela Merkel su tutti, di una replica del discusso accordo tra Ue e Turchia, per esempio con l’Egitto o altri Paesi africani…
Sono allibito da questa ipotesi. Come nel caso della Turchia, è stato reso palese l’obiettivo: tenere i profughi lontani dalle nostre coste, anche se dove vengono trattenuti – in cambio di soldi, 3 miliardi di euro nel caso della Turchia – i diritti umani non sono rispettati. È come se dicessero: “il costo sulla vita delle persone non ci interessa, l’importante è il risultato”. E la prospettiva di stringere accordi con gli Stati africani è ancora più inquietante, vista l’instabilità politica di quei posti. Si pensi alla Libia, dove la gran parte dei migranti che vi è passata ha subito abusi e maltrattamenti di ogni tipo. La politica europea si sta rivelando sempre più cieca.

Politica cieca anche verso le crisi internazionali, come la Siria?
In Siria si sono oramai rivelati in modo palese gli interessi internazionali, sulla pelle delle persone. Non si trova una soluzione comune lì, e non si trova un accordo europeo rispettoso delle persone che fuggono dal proprio Paese. Situazioni di guerra a parte, i flussi si governano con politiche economiche internazionali che portino le persone a diminuire la volontà di fuggire da casa propria. Invece si spende per maggiori controlli, senza una visione a lungo termine, dove ogni Stato, in assenza di politiche comunitarie, fa da sé trovando soluzioni tampone, come il recente accordo tra Italia e Sudan, che ha portato all’atto estremamente negativo del rimpatrio di 40 sudanesi da Ventimiglia, via Torino.

Testimoni hanno raccontato che tale procedura di rimpatrio sia stata piuttosto dura e lesivo dei diritti dei migranti. Ieri, però, su Avvenire il capo della Polizia ha negato ogni irregolarità nella procedura. Come uscire da questa situazione per evitare che ne accadano altre?
Come Tavolo nazionale asilo, di cui il Centro Astalli fa parte assieme a molti altri enti, abbiamo denunciato sia l'accordo che il rimpatrio. La soluzione è una, a monte: evitare di fare accordi con Paesi in cui palesemente i diritti umani non sono rispettati. Non si può considerare Paese terzo sicuro il Sudan, quando il proprio presidente ha un mandato d’arresto internazionale ed è considerato un criminale dal Tribunale internazionale. In aggiunta, molti dei sudanesi provengono in realtà dalla regione del Darfur e dal Sud Sudan, teatro entrambi di massacri e violazioni generalizzate di diritti da decenni. Come si può pensare di rimandare indietro queste persone?

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.