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Como, tra i volontari che evitano il collasso dell’emergenza migranti
Abbiamo passato un giorno tra le centinaia di persone che tentano in ogni modo di superare il confine italo-svizzero per poi arrivare in Germania partendo dal capoluogo lombardo. La macchinosa entrata a regime del nuovo campo ufficiale, la tensione tra le tende della stazione, lo sforzo incredibile dei volontari cittadini e della parrocchia di Rebbio nel gestire le ferite psico-fisiche dei minori non accompagnati: ecco cosa sta accadendo in uno dei punti più caldi d'Italia
Ci sono luoghi in cui succedono cose che ogni essere umano dovrebbe vedere con i propri occhi: a Como, in queste ore, la Storia – quella che finirà sui libri di scuola – sta scrivendo pagine fondamentali. “Il fallimento delle politiche europee sull’accoglienza”, sarebbe il titolo più appropriato di quelle pagine. L’intero Palazzo di vetro dell’Onu di New York, fino a poche ore fa in assise proprio sul tema rifugiati, dovrebbe essere catapultato per le strade di questo capoluogo lombardo di frontiera: centinaia di migranti (erano 15 la prima notte, lo scorso 7 luglio 2016, sono arrivati a quota 500 in pieno agosto), molti dei quali minorenni in viaggio da soli, appostati con sacco a pelo e tende nel piazzale della Stazione ferroviaria cittadina, cercano giorno dopo giorno, alcuni da settimane, il treno giusto per arrivare in Svizzera. Ma, oggi, è come passare dalla cruna di un ago. Quando arriviamo in città, martedì 20 settembre, si parla di 300 presenze: soprattutto migranti da Africa centrale e subsahariana, in minor misura mediorientali come siriani o palestinesi. Dal Ticino vengono respinti in Italia, allo sbando. I minori non accompagnati ancor più provati, perché spesso sottoposti a interrogatori lunghi e degradanti. Adulti e ragazzi ritornano a bivaccare in stazione, riprendendo le forze prima di ritentare il passaggio in Svizzera, in un circolo vizioso che non rompe in tragedia per un solo motivo: la straordinaria azione della società civile comasca. Senza i volontari, i cittadini, le reti sociali, la bomba dell’accoglienza sarebbe già esplosa con danni incalcolabili: è una storia di resilienza pazzesca, quella che abbiamo incrociato. Qui sotto ve la raccontiamo.
IL CAMPO UFFICIALE
Arriviamo con la città in fermento: il giorno prima la Prefettura ha aperto un Centro di prima accoglienza, a meno di un chilometro dalla Stazione, nell’area ex Rizzo in un quartiere a ridosso del centro ma comunque non troppo frequentato. Davanti alle porte della struttura, in via Regina Teodolinda, c’è un gruppo di migranti in attesa di entrare per il pranzo: ci spiegheranno di lì a poco che per questi primi giorni una persona può venire a mangiare senza poi rimanere per forza a dormire. L’idea è quella di far prendere confidenza con il Centro, ovvero qualche fila di container adibiti a posti letto e un tendone per la mensa, modello già sperimentato altrove. Chi ci vuole pernottare, dovrà sottoporsi a una breve intervista con foto per poi ottenere un tesserino per entrare e uscire, con ultima entrata alle 22.30. “Niente impronte, sia chiaro”, ribadiscono tutte le autorità coinvolte. È l’approccio morbido che fin dall’inizio ha scelto di tenere la Prefettura e, di conseguenza, la Questura per quando riguarda l’ordine pubblico.
Approccio che l’associazionismo apprezza, e che si rivela anche nella gestione attuale dello stesso Centro: logistica e chiavi in mano alla Croce rossa italiana, mediazione a titolo gratuito chiesta alla Caritas cittadina: “entriamo nel campo con i nostri operatori e, nei prossimi giorni, con volontari di altre reti con le quali abbiamo collaborato in questi due mesi per affrontare l’emergenza”, spiega Stefano Sosio, operatore di Caritas e della cooperativa sociale Symploké, convolta nella seconda accoglienza dei richiedenti asilo in città.
Il Csv, Centro servizio volontariato, sta mettendo a punto una lista di persone che poi saranno autorizzate a entrare, in coordinamento con tutte le realtà coinvolte e l’amministrazione comunale. Il primo giorno di apertura le presenze sono state un centinaio, il giorno del nostro arrivo 180, oggi 21 settembre si è saliti a 220, con conseguente minore affollamento del parco della stazione, che sarà probabilmente svuotato nei prossimi giorni. “I migranti si stanno fidando delle informazioni date loro, la speranza è che non avvenga nulla che possa tradire questa fiducia”, spiega Michele Luppi dell’Osservatorio migranti WelCom, che riporta puntualmente le informazioni essenziali (come la nascita di un team di supporto legale composto da 20 avvocati comaschi) su un’efficace pagina facebook. Informazioni che sono state fatte circolare anche tramite un volantino nel periodo precedente all’apertura del Campo. Eccolo.
A monitorare le prime azioni nel campo arrivano anche un paio di funzionari dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i diritti umani, che incrociamo alla porta della struttura con un mediatore. Seguirà la visita di Save the children, anche se in base alle direttive attuali, ai minori non è consentita la permanenza notturna, nonostante sia in piena emergenza letti l’unica struttura che li sta ospitando, la vicina parrocchia di Rebbio. La mediazione legale non è ancora operativa, “siamo all’analisi dei bisogni, una volta individuate le nazionalità presenti saranno coinvolti mediatori per compiere i primi passi di avvicinamento ai migranti”, spiega Sosio di Caritas.
Ogni decisione viene presa in un Tavolo tecnico che si incontra giornalmente proprio per far fronte a un flusso che di giorno in giorno cambia. “Un obiettivo del campo è fare capire ai migranti l’opportunità della richiesta di asilo in Italia, anziché provare continuamente ad attraversare una frontiera che purtroppo da tempo è chiusa senza soluzione di continuità”. Se in primavera erano meno del 10% i respinti dalle autorità svizzere, ad agosto si è arrivati al 70% su una media di mille ingressi settimanali. Numeri altissimi, ben dettagliati in rapporti redatti dalle associazioni che monitorano la frontiera come Asgi, Amnesty international e Firdaus.
IL PARCO DELLA STAZIONE
Dal campo ufficiale alla stazione ferroviaria, meno di un chilometro di strada. È quella che percorriamo incontrando migranti che tornano verso i treni aspettando la volta buona per provare a salire: destinazione Ticino, stop quasi certo alla frontiera di Chiasso. Lo spiegamento di forze dell’ordine, in divisa e in borghese, c’è e ha il suo peso, ma è in un angolo di piazza e parco. Osserva. In mezzo, migranti divisi per nazionalità: i più evidenti sono gli eritrei (gli unici ad avere qualche chances, quando va bene, di entrare in Svizzera in virtù di ricongiungimenti famigliari comunque sempre più difficili da ottenere) e gli etiopi di etnia Oromo, i più restii a entrare nel Centro della Croce rossa. Non si fidano.
Li avviciniamo: uno di loro, poco più che 18enne, è appena tornato dall’ospedale, ha evidenti ferite alla testa. “Ieri notte una persona ubriaca mi ha aggredito senza motivo”, spiega in un ottimo inglese, seduto in mezzo a una decina di connazionali, che diventeranno poi il doppio man mano che entriamo in relazione. Passano pochi minuti, il tempo di chiedere loro le motivazioni del rifiuto del campo ufficiale – “abbiamo paura per le impronte, dopo dobbiamo rimanere a chiedere asilo in Italia (in conseguenza del Trattato europeo Dublino III, ndr) ma noi vogliamo arrivare in Germania”, è la preventivata risposta – e si ripresenta un uomo maghrebino che in francese chiede con insistenza al gruppo che gli venga ridata una borsello perduto la notte precedente. “E’ lui che mi ha picchiato”, ci indica il profugo etiope (gli Oromo sono perseguitati in patria). La situazione si scalda, l’uomo – che le forze dell’ordine ci diranno poi essere da tempo sul suolo italiano, di sicuro non un profugo – passa alle minacce, cerchiamo di stemperare la tensione che, unita alla stanchezza degli Oromo, può degenerare. Segnaliamo la situazione alla Polizia, che interviene, così come tiene d’occhio la situazione il presidio degli attivisti No Border, presenti nel campo con una tenda e un punto informazioni per i migranti. Attorno alla stazione, oltre agli attivisti, arrivati nelle settimane successive ai primi arrivi, gravitano ancora quotidianamente tutti gli altri gruppi informali di volontari nati per tamponare l’emergenza. Come la rete Como senza frontiere, di cui fa parte Anna Francescato, 22 anni, una delle prime persone a essere arrivata con una scorta di viveri a inizio luglio. “Ero lì con i miei fratelli, ci davamo da fare per capire le prime necessità. Poi la rete è cresciuta molto, non ce l’aspettavamo, siamo arrivati a punte di 700 volontari, un ottimo risultato per una città come Como”, spiega Francescato, che nel tempo libero insegna italiano agli stranieri nella parrocchia di Rebbio e che incontriamo con altri due volontari delle prime ore, Alice Rossi, 18 anni e Fabrizio Baggi, 38.
“Nel giro di poco tempo quello che smbrava un flusso di poche decine di persone è diventato di centinaia, ci siamo dovuti attrezzare chiamando a raccolta più gente possibile”, spiega Rossi. “Per tutto il primo periodo facevamo i turni di notte, con cibo e coperte, poi la mattina alle 5, quando i migranti prendevano il primo treno utile per la Svizzera, pulivamo la piazza”, aggiunge Baggi. Anche qui a Como, come a Milano per l’emergenza di arrivi di profughi al mezzanino della Stazione Centrale, è il volontariato informale che ha segnato il passo all’amministrazione comunale, intervenuta in un secondo momento attraverso la propria Rete Grandi marginalità e comunque sempre in collaborazione con le associazioni, che fino ai giorni precedenti all’apertura del campo ufficiale gestivano le centinaia di pasti giornalieri la mensa Caritas di Sant’Eusebio.
LA PARROCCHIA DI REBBIO
Se il campo ufficiale e la Stazione raccontano di un’emergenza sospesa su un filo fragile, il luogo in assoluto più significativo di quanto Como sia oggi un crocevia mondiale dell’umanità – ferita – è la parrocchia di Rebbio. Qui le emozioni sono forti, scacciarle è difficile e forse ingiusto. La scena è paradossalmente agrodolce: un via vai continuo di minori non accompagnati, almeno una settantina al nostro arrivo, eritrei, etiopi, ghanesi, gambiani, ivoriani, e decine di volontari che li ascoltano, preparano da mangiare, approntano i materassi stesi per l’emergenza nelle sale parrocchiali, curano ferite del corpo e dell’anima. “L’hai vista la camionetta della Polizia appena passata? Ha lasciato qui da noi altri 14 ragazzi che hanno tentato di entrare in Svizzera e non ce l’hanno fatta. Ecco i loro verbali, e quelli che vedi lì buttati sono i braccialetti con cui le autorità svizzere li hanno schedati”, racconta Desy Borderi, mamma come tante altre fino ai primi giorni di luglio, quando ha saputo degli arrivi in stazione: da allora si è messa a disposizione, a ogni ora del giorno, potendo sacrificare parte del proprio lavoro. Borderi ha capito subito che l’emergenza nell’emergenza erano i msna, i minori stranieri non accompagnati: “sapevo che don Giusto li accoglieva a Rebbio, ho iniziato a venire qui e ora non è possibile venire via, lo vedi tu stesso”. Sono decine le necessità da tamponare, e don Giusto Della Valle, 55 anni, che fin dalla prima Emergenza Nord Africa successiva al 2011 ospita nella sua parrocchia ragazze madri e minori, è un umile monumento vivente a chi opera senza troppo clamore ma con una perseveranza infinita. La scritta Coexist, all'ingresso della casa parrocchiare, dice già molto sull'approccio.
“Noi apriamo le porte, queste persone hanno bisogno. È chiaro che l’emergenza deve trovare una soluzione a breve, non possiamo andare avanti ancora per molto con le forze che disponiamo e i numeri in aumento”, spiega Della Valle. “Ci vuole una soluzione politica ad alto livello, che comprenda modalità precise di azioni verso i flussi improvvisi che avvengono in tutti i luoghi di frontiera come Como. Oggi a Milano ci sono 3mila persone in attesa, presto passeranno di qui”, sottolinea il parroco. Il servizio, senza nulla in cambio, che lui e i volontari stanno facendo alle autorità è di fatto “l’unica soluzione alla strada per questi ragazzi, dato che l’unica struttura di accoglienza cittadina per minori è stata chiusa mesi fa. Ma è urgente trovare un posto dove metterli, prima possibile”, esorta Della Valle. Il freddo è alle porte, ma soprattutto le dinamiche non cambiano: “questi ragazzi arrivano con una sola idea in testa: andare in Germania, o in Svizzera se hanno parenti, in particolare gli eritrei”, spiega Borderi, “ma vengono respinti e umiliati alla frontiera, rinchiusi in un tunnel sotterraneo anche per giorni, denudati, privati della dignità. Tornano qui con quei braccialetti al polso, ogni colore ha un significato per quanto riguarda l’età, il loro numero identificativo, il possesso di effetti personali”, indica. I braccialetti sono quasi tutti in un cestino: “la prima cosa che fanno è toglierli, per dimenticare l’umiliazione.
Tra pochi giorni, però, ritenteranno ancora con il rischio di nuovi traumi”. Una ventina di loro in due mesi hanno trovato alloggio in comunità della zona, “troppo pochi, se si conta che almeno 600 sono passati da Como”. Gli altri? “Spariti. Di pochi sappiamo che ce l’hanno fatta, sono in Germania. La maggior parte è in qualche altro punto della frontiera, oppure finita nella rete della tratta e questo è il dramma maggiore”. Un dramma racchiuso in un’immagine: quella di un ragazzo, tremante e con il viso grondante di lacrime, rannicchiato disteso sul materasso con il cappuccio della felpa a coprigli il volto per metà. E’ uno degli ultimi 14. Cercava l’Europa patria dell’umanità, è devastato dopo il trattamento frontaliero. Le sue lacrime, il fallimento di ogni Convenzione internazionale sui diritti umani.
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