Famiglia

La lezione di Jean Vanier: «la persona più fragile è la più necessaria, perché ci tiene uniti»

Don Marco Bove, presidente della Fondazione Sacra Famiglia, è assistente spirituale internazionale di "Fede e Luce", fondato da Vanier: «Lui diceva che le parti del corpo più deboli sono quelle non solo più protette, ma anche circondate da maggior rispetto e più necessarie. Così nel corpo sociale e nella Chiesa, le parti più fragili non sono solo quelle con più bisogni ma anche le più importanti. Sono anche fonte di unità, perché attorno alla fragilità le differenze e le distanze possono essere superate»

di Sara De Carli

Il motto di “Fede e Luce” è «meglio accendere una luce che maledire l’oscurità». A fondarla fu Jean Vanier – scomparso la notte scorsa – nel 1971, insieme a Marie Hélène Mathieu, un’insegnante di sostegno: l’obiettivo era quello di sottrarre le famiglie delle persone con disabilità alla tentazione di isolarsi, aiutandole viceversa a scoprire che proprio il loro figlio più fragile poteva essere fonte di unione con gli altri. L’assistente spirituale internazionale di Fede e Luce è don Marco Bove, presidente della Fondazione Sacra Famiglia: è stato eletto in aprile e il suo mandato inizierà il prossimo settembre. A don Marco, che conosce da vicino Jean Vanier e la sua esperienza dal 1983, abbiamo chiesto un ricordo.

Qual è la storia del suo incontro con Jean Vanier e con “Fede e Luce”?
Ho incontrato “Fede e Luce” nel 1983, ero ancora in Seminario. Ho conosciuto personalmente Jean Vanier e ho partecipato a tanti momenti di formazione tenuti da lui, tanti ritiri, l’abbiamo invitato anche a Triuggio e poi in parrocchia a Milano per un incontro con i giovani… lui cercava sempre i giovani. Sono assistente ecclesiastico nazionale delle comunità di “Fede e Luce” e poi assistente spirituale nazionale. In aprile c’è stata l’elezione come assistente spirituale internazionale.

Pensando alla figura di Jean Vanier, cosa sottolineerebbe?
Il suo approccio alla disabilità, che è stato veramente diverso e molto anticipatore. Lui non ha creato un ente o una realtà assistenziale, lui ha scelto di andare a vivere con due persone con disabilità mentale. In termini molto sintetici, quasi da slogan, la sua scelta è stata di “esser con”, non di “fare cose per” le persone con disabilità. C’è una spiritualità che connota fortemente queste esperienza di vita.

L’esperienza dell’Arca, di questo vivere insieme, è il frutto più celebre di Jean Vanier. “Fede e Luce” invece com’è nata?
Qualche anno dopo, agli inizi degli anni ’70, accolse insieme e a Marie Hélène la richiesta di alcune famiglie con figli con disabilità mentale e comportamentale che erano state rifiutate da un pellegrinaggio tradizionale a Lourdes. Nel 1971, per la Pasqua, venne fatto questo primo grande pellegrinaggio a Lourdes: non era una cosa pensata prima, è accaduta. Al ritorno le persone chiesero “e adesso cosa facciamo?”. La risposta di Jean Vanier fu contonuate a trovarvi, fate festa e pregate insieme, quello che lo Spirito suggerirà sarà il futuro. Nel 1974 “Fede e Luce” arrivò in Italia e oggi conta 60 comunità: sono comunità di incontro, persone che vivono a casa loro e si incontrano con amici, persone con disabilità, famigliari. In Italia l’esperienza dell’Arca c’è solo in due posti: a Ciampino, con la comunità “Il chicco”, che Papa Francesco ha visitato nella Quaresima 2018 e a Bologna, con “L’arcobaleno”.

Al centro della riflessione di Jean Vanier c’è la fragilità, con un paradossale affermare che proprio le persone più fragili sono le più importanti. Rileggevo un’intervista del 2007 e trovavo una straordinaria anticipazione di quanto Papa Francesco oggi ci continua a ripetere sugli “scarti” e le “periferie”… È così?
Questa è la grande intuizione dell’Arca e della visione di Vanier. Lui partiva spesso, nei suoi interventi, dall’apologo di San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi, quello che parla del corpo e delle membra: lui diceva che le parti del corpo più deboli sono quelle non solo più protette, ma anche circondate da maggior rispetto e più necessarie. Così nel corpo sociale e della Chiesa, le parti più fragili non sono solo quelle con più bisogni e più bisogno di attenzione ma anche le più importanti. E – cosa non meno importante da sottolineare – proprio le parti più fragili sono fonte di unità. Nell’esperienza legata a Vanier c’è questa forte dimensione ecclesiale e di ecumenismo, che ha permesso di scoprire come attorno alla fragilità le differenze e le distanze possono essere superate. La persona fragile quindi è la più necessaria anche perché ci tiene uniti.

Come è maturato, oggi, lo sguardo della Chiesa sulla disabilità? È capace di questo sguardo di cui parla Vanier? Pochi giorni fa anche Sacra Famiglia ha partecipato al convegno “Comunità Generativa: l'accompagnamento della persona con disabilità alla vita cristiana” organizzato dall’Ufficio Catechistico Nazionale della CEI…
Quanto allo sguardo sulla fragilità è stata fatta tanta strada. Una volta si partiva dalla domanda “che cosa capisce?”, ad esempio per l’ammissione ai sacramenti. È un approccio molto intellettualistico, fra l’altro provocatoriamente potremmo chiederci chi fra noi può dire di aver compreso pienamente i sacramenti, pur facendo magari la Comunione ogni domenica? La domanda da porsi è un’altra, è “quanto il Signore cerca questa persona”. Non siamo noi a dover misurare la comprensione, perché non si accede ai sacramenti per merito o perché sono stati compresi… Il tema dell’accoglienza e dell’importanza della persona fragile nella nostra comunità cristiana è molto più maturo e presente, anche se purtroppo mi capita di ancora di discutere con qualcuno che si pone ancora con quell’approccio intellettuale… Qui da noi, per esempio, domenica scorsa una ragazzina ha ricevuto la Cresima, davvero lo sguardo è quello di un’accoglienza, di mettere al centro i piccoli. Questo è uno degli elementi più forti di Jean Vanier, profondamente umano e insieme profondamente spirituale.

Come la sua esperienza di vita in Fede e Luce di riflette nel suo essere presidente di Sacra Famiglia?
L’Arcivescovo mi ha chiamato a questa responsabilità in Sacra Famiglia proprio a partire da questa mia esperienza. Io non venivo da una formazione e da un’esperienza amministrativa, quindi quando l’Arcivescovo mi ha chiamato, ho proprio chiesto “ma perché io?”. Per questo, mi ha risposto, perché l’Arcivescovo vuol che grandi e importanti realtà come Sacra Famiglia, Don Gnocchi, La nostra famiglia… non perdano la loro profonda ispirazione evangelica, pur dovendo tenere conto di tutte le regole e le sfide odierne del mondo sanitario e socioassistenziale… ma nascono come esperienze di carità e con questo sguardo sui piccoli e sui fragili.

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