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Perche’il sommerso resta sempre sommerso

Solo un centinaio di aziende avrebbero presentato la domanda per mettersi in regola. Così si è dovuto concedere una proroga al 30 novembre.

di Carlo Borgomeo

La legge sul sommerso non “tira”. Il governo, anche sulla spinta decisa e insistente del presidente della Confindustria, Antonio D’Amato ha , opportunamente, fatto della questione uno dei punti forti della politica dei cento giorni. Ma qualche settimana fa è stata decretata una ulteriore proroga al 30 novembre 2002 per la presentazione delle domande. Domande che, stante agli organi di informazione che seguono più da vicino questa materia, non superano le centinaia. Evidentemente l’insieme delle misure, certamente generose, messe a disposizione di chi vuole regolarizzarsi, non sono sufficientemente attrattive e convincenti. Già si parla, infatti, di rendere più forti gli “sconti” o più lungo il tempo degli sconti stessi. Come pure si insiste sulla necessità di una maggiore informazione. Seguire la domanda L’uno e l’altro correttivo, a mio avviso, non sarebbero sufficienti. Occorre piuttosto rivedere la logica stessa cui devono ispirarsi le politiche e gli interventi per favorire l’emersione. Naturalmente è necessario non abbassare la guardia in termini di repressione, soprattutto per le attività illecite; come pure è utile avere a disposizione una serie di opportunità da offrire alle imprese sommerse in termini di minori costi di produzione, dal fisco al lavoro; tuttavia appare evidente che bisogna non limitarsi all’offerta di opportunità, ma promuovere, selezionare, accompagnare la “domanda” di emersione. Tutti sanno che il sommerso è un fenomeno assai complesso, che non può essere spiegato solo con questioni di costo: vi sono motivazioni, in qualche caso decisive, che attengono alla indisponibilità di siti per attività artigiane, al timore di non potersi adeguare alle normative sulla sicurezza, alla scarsa qualità imprenditoriale degli operatori; alle difficoltà di relazione con gli istituti di credito, all’incapacità di utilizzare le opportunità della “rete”. Fattori spesso combinati tra loro che non consentono una semplificazione sul versante dei costi. Anche sconti clamorosi sul costo del lavoro non consentono a un artigiano, che lavora in locali non idonei, a uscire allo scoperto se non ha un altro luogo in cui esercitare la propria attività. Efficienza e qualità In poche parole penso che bisogna lavorare sulla domanda: bisogna cioè capire e compattare le diverse questioni che, territorio per territorio, determinano l’esistenza di grandi sacche di sommerso; bisogna accompagnare gli imprenditori, spesso straordinari in quanto ad abilità produttive o a fiuto commerciale, a integrare le loro competenze; bisogna educare le imprese alla cultura del business-plan; bisogna costruire in sede locale percorsi di formazione professionale; bisogna predisporre strumenti di garanzia che rendano possibile l’accesso al credito. Per questo ho sempre pensato che la politica per l’emersione corrispondesse, nella sostanza, a una politica di creazione d’impresa. Non basta quindi, aumentare il livello degli sconti, non basta utilizzare l’intelligente disponibilità dei sindacati, in particolare i tessili, per ridurre il costo del lavoro. Occorre arrendersi a costruire una vera e propria politica d’accompagnamento, di promozione dei soggetti che, è bene ricordarlo, per essere corretta e utile deve essere anche giustamente selettiva. è un lavoro immane, ma possibile. E soprattutto l’unico che può far crescere imprese solide, non temporaneamente sollevate sul versante dei costi. Come tutti sanno, peraltro, l’impresa non può diventare solida e competitiva giocando sui bassi costi, ma sulla efficienza e sulla qualità. I bassi costi possono rappresentare un incentivo iniziale, che consenta di mettere mano alle questioni vere che “fanno” un’impresa. Altrimenti, i soggetti interessati si chiederanno che cosa succederà “dopo”; e nell’incertezza, continueranno a lavorare in nero. Questo schema di ragionamento ha avuto un’importante verifica empirica, con l’esperienza del prestito d’onore. Secondo gli ultimi dati forniti da Sviluppo Italia, circa il 30% dei beneficiari, ufficialmente disoccupati, era in realtà impegnato in lavori in nero, naturalmente non in attività illecite. Hanno utilizzato non solo i soldi, ma il meccanismo del prestito d’onore per “emergere”. Quindi hanno accettato un corso di formazione, l’assistenza di un tutor e, soprattutto hanno realizzato, con l’assistenza necessaria, un piano d’attività, una sorta di business-plan che li ha fatti misurare con la dimensione imprenditoriale. E spesso, la redazione del piano di attività li ha convinti che la loro attività non aveva futuro. Per il sommerso, come per le politiche di sviluppo, si deve lavorare sulla domanda e non limitarsi a concepire pacchetti d’offerta, sempre più ricchi e sofisticati. E bisogna sapere che si vince sul territorio, intercettando e governando i processi reali.


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