Formazione

Un ragazzo su 10 ha i genitori nati altrove: non chiamateli più stranieri

Sono più di un milione in Italia gli under18 nati da genitori di origine immigrate: uno su 10. Sono a cavallo tra due mondi. Le ragazze, in particolare, sono più esposte al rischio di trasgredire le norme educative familiari, più colpite da violenza fisica e verbale. Servono operatori più preparati, a cominciare dalla scuola, afferma la Garante per l'Infanzia. «Ma anche il linguaggio e le narrazioni che li riguardano hanno bisogno di una revisione»

di Sara De Carli

Un minorenne su dieci, in Italia, ha genitori di origini immigrate. Si tratta di un milione di under 18, ben bilanciati tra maschi e femmine, che crescono all’incrocio tra due mondi, che spesso fanno da mediatori tra due culture, quasi fossero genitori dei loro stessi genitori. Minorenni che affrontano discriminazioni e malintesi. Considerati stranieri anche se parlano e vivono da italiani. O costretti a battagliare per far accettare ai loro familiari comportamenti “da italiani”. Ma conosciamo davvero questi ragazzi? Come vivono? Quale identità si stanno formando? Quale senso di appartenenza si stanno costruendo? Quali garanzie effettive hanno di poter godere del rispetto delle origini e delle diversità culturali e religiose da un lato, ma anche delle medesime opportunità di crescita, evoluzione, socializzazione, studio, gioco e lavoro dei loro coetanei italiani a parità di risorse intellettive e di impegno? Quale futuro stiamo costruendo per loro?

Per rispondere a tutte queste domande l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza ha realizzato un documento di studio e proposta, “L’inclusione e la partecipazione delle nuove generazioni di origine immigrata. Focus sulla condizione femminile”, realizzato con il supporto tecnico dell’Istituto degli Innocenti di Firenze e presentato stamattina a Roma. Una “fotografia” dei ragazzi nati o cresciuti in Italia da genitori di tante e diverse parti del mondo, una raccolta di loro voci, di buone pratiche, di raccomandazioni.

Secondo i dati Istat, aggiornati al 1° gennaio 2018, in Italia gli under 18 con genitori di origine immigrata sono 1.041.177 su un totale di popolazione minorile di 9.806.357 ragazzi, uno su dieci. Dal 1993 al 2014 sono nati in Italia quasi 971 mila bambini da genitori stranieri, con una tendenza alla crescita che però sta diminuendo. Fino a qualche anno fa, la maggioranza di questi bambini e ragazzi era nata all’estero, oggi invece la grande maggioranza è nata in Italia: oltre 7 su 10. Nell’anno accademico 2017-2018 risultano immatricolati nelle università italiane quasi 8.000 studenti di nazionalità straniera che hanno conseguito il diploma di scuola superiore in Italia, senza contare quanti hanno acquisito la cittadinanza italiana e i figli di coppie miste: piccoli numeri, che però sono il segno di una società che cambia.

Come vivono questi bambini e ragazzi? Questioni culturali e problemi strutturali si sovrappongono: precarietà economica; sistemazioni abitative in genere di mediocre qualità, con scarse dotazioni di servizi e luoghi di aggregazione; orari di lavoro prolungati per molti genitori, difficoltà a trovare appoggio da parte della rete parentale o di altri soggetti nella supervisione educativa. I minori restano spesso soli, se entrambi i genitori lavorano fuori casa; altre volte, restano affidati a madri arrivate per ricongiungimento (raramente ai padri), che rischiano di avere poca autonomia, scarse competenze linguistiche e ridotta capacità di movimento nella società ospitante. I figli, grazie anche alla frequenza della scuola, si trovano ben presto in una situazione di più avanzata integrazione culturale nella società ricevente rispetto ai genitori, soprattutto sotto il profilo della padronanza della lingua, con un rovesciamento dei ruoli, attraverso il quale i figli assumono precocemente responsabilità adulte nel confronto con la società ospitante, fino a diventare, per certi aspetti, «i genitori dei loro genitori». Questo fenomeno rischia di indebolire l’immagine degli adulti e il loro ruolo di guide per la crescita dei figli, specialmente quando è rafforzato dalla produzione di stereotipi svalutanti verso gli immigrati. I figli poi, socializzati nella società ricevente, tendono a rifiutare le forme di integrazione subalterna accettate dai padri e dalle madri, assumendo criteri di valutazione dei lavori accettabili e degli stili di vita desiderabili molto più simili a quelli dei coetanei.

Un altro campo di tensione riguarda la trasmissione di modelli culturali ispirati alla società di origine. Il problema assume spesso una dimensione di genere, giacché le pressioni conformistiche sono normalmente più forti nei confronti delle figlie. Le ragazze scontano di più la divergenza fra le aspettative dei genitori e la situazione reale dei figli, con la preoccupazione da parte dei genitori che le figlie, frequentando amici italiani e vivendo in Italia, possano assumere uno stile di vita percepito come un attacco all’identità radicata nei Paesi di origine. «Viste come più esposte al rischio di trasgredire le norme educative familiari, sono le principali destinatarie di atteggiamenti ritorsivi e violenti: più colpite da violenza fisica e verbale, rappresentano un gruppo ad alto rischio di esposizione a problematiche di salute fisica e mentale», scrive il report, che dedica un focus specifico alla condizione femminile, definendo le ragazze come la categoria più a rischio.

Sono circa 500 mila le minorenni di origine immigrata presenti Italia. «Le ragazze spesso non si sentono sufficientemente ascoltate e comprese dalle loro famiglie e vivono situazioni conflittuali nei rapporti con i genitori, a causa delle amicizie, delle relazioni sentimentali, della gestione del tempo extrascolastico. Allo stesso tempo, si sentono a disagio nei confronti delle coetanee, a causa delle diverse condizioni economiche che non permettono loro di seguire la moda, frequentare con assiduità luoghi di socializzazione, avere gli stessi margini di autonomia. Inoltre, secondo le adolescenti la figura femminile in Italia è più preservata e spesso ha la possibilità di accedere a un percorso scolastico ed educativo al quale non avrebbe accesso nel paese di origine», si legge nel report.

Nei focus group realizzati, i ragazzi hanno parlato sia di classi molto solidali, amichevoli, con rapporti sereni, che, al contrario di casi e situazioni di esclusione, discriminazione e bullismo non necessariamente razzista: forme di aggressività o esclusione più dovute alla diversità che al fatto di essere “stranieri”. Sono stati segnalati tanti casi in cui in classi molto eterogenee la diversità era vista come naturale e positiva mentre essere l’unico “straniero” all’interno di gruppi compatti è percepito come situazione più problematica. Sono emersi molti casi di discriminazione e forte disagio relazionale. Più di un ragazzo ha affermato che è compito delle nuove generazioni di origine immigrata instaurare un dialogo costruttivo con i genitori, aiutarli a capire, ad accettare alcuni cambiamenti, nella consapevolezza che non sempre è possibile trovare un punto di accordo: “È un compito nostro far capire ai genitori che ci stiamo integrando. Ciò che dobbiamo fare è rispettarli e capire se sono persone agili e possono essere cambiate oppure no. Se possono esserlo bene sennò vogliamo loro bene, portiamo rispetto ma noi andiamo avanti lo stesso. A volte creiamo noi quell’ostacolo. Ti vogliono bene, sicuramente non è da discutere. Ma noi giovani dobbiamo capirli, capire se possono cambiare o no. Se sì, bene. Se no, non dobbiamo vivere in quella gabbia. Non si può dire: Non sono stato bene perché mia madre era così. Non è vero, dipende da te”.

«Quelli di nuova generazione sono bambini e ragazzi per i quali i diritti della Convenzione di New York valgono come per tutti i loro coetanei», avverte l’Autorità garante, Filomena Albano. «Con lo studio avviato a maggio 2018 dalla Consulta delle associazioni e delle organizzazioni dell’Agia abbiamo rilevato buone pratiche e criticità, grazie a docenti universitari, esperti, magistrati, avvocati e rappresentanti delle associazioni dei ragazzi di seconda generazione e delle comunità straniere in Italia. Abbiamo ascoltato la voce dei ragazzi di nuova generazione e ne sono scaturite, oltre che storie e testimonianze, una serie di indicazioni sulle azioni possibili per la loro inclusione e partecipazione. Azioni che le istituzioni – in particolare la scuola – gli operatori, i professionisti e le organizzazioni sono sollecitate a porre in atto».

Tra le raccomandazioni presentate spicca la sensibilizzazione del personale che entra in contatto con bambini e ragazzi di nuova generazioni sulle loro specificità culturali, in particolare a scuola. E ancora: la presenza di mediatori linguistici e culturali ai colloqui dei genitori con gli insegnanti; servizi di orientamento scolastico che oltre a fornire a genitori e ragazzi le informazioni pratiche rilevino competenze, incoraggino, sostengano l’autostima di genitori e figli, costruendo percorsi formativi adatti a loro e non basati su visioni stereotipate; il concreto supporto alla genitorialità, con un’attenzione particolare per il coinvolgimento delle mamme che in molti casi sono più esposte al rischio di rimanere isolate; il rafforzamento dell’educazione alla relazione e alla salute riproduttiva e sessuale. «Anche il linguaggio e le narrazioni che li riguardano hanno bisogno di una revisione. Per questo abbiamo invitato l’Ordine dei giornalisti a collaborare con gli stessi immigrati o con le nuove generazioni di origine immigrata come testimoni privilegiati per pervenire a questo risultato», conclude Albano. Non “stranieri” ma “nuove generazioni di origine immigrata”.

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