Mondo
L’erba Volag cresce sulle rive del Gange
La sigla sta per"Voluntary Agency": organizzazioni di volontariato nate dalla società civile.
L’India è il più grande Paese democratico del mondo, ma classi, religioni, lingue e squilibri regionali lo rendono un gigante complesso ed eterogeneo che poggia ancora sui fragili piedi costituiti dalle caste. In questo grande paese i Dalits – le persone che per le condizioni di vita a cui sono costrette vengono chiamati “gli intoccabili” – costituiscono ancora oltre il 20% della popolazione. Il 52% degli indiani sa leggere, l’altro 48% no. L’India è anche uno dei Paesi più abitati del mondo: su una superficie che rappresenta solo il 2,4% del territorio abitato del pianeta, vive il 16% della popolazione mondiale (975 milioni di persone). Ma le contraddizioni, i paradossi e gli aspetti stupefacenti di questo gigante non finiscono qui. L’India non è una sola: ce ne sono molte. Venticinque Stati e sei principali gruppi etnici e oltre 4.600 comunità la compongono; sei religioni e 18 lingue sono ufficialmente riconosciute (insieme a oltre 320 dialetti). In India le condizioni di vita sono a rischio. Circa 135 milioni di persone non hanno accesso ai servizi sanitari, 171 milioni non usufruiscono di acqua potabile e 640 milioni non hanno servizi igienici. I disabili sono quasi due milioni (quelli che sopravvivono alla dilagante mortalità infantile), i casi di Aids aumentano al ritmo di oltre 2 milioni di casi l’anno.
Le radici del movimento
Eppure, un Paese con questo volto ha vissuto nel corso di questo secolo uno sviluppo davvero sorprendente del Terzo settore. Tanto che parole come Seshcha Sevi (volontariato) e Sanghatanas (organizzazione) sono diventate comuni nella lingua hindi, e gli indiani hanno coniato un acronimo per esprimere lo stesso concetto in inglese: “Volag”, cioè Voluntary Agency, accanto ai più ordinari “Grassroots Moviments” o “Civil Society Organizations”, sigla entrata più recentemente in uso in modo da sottolineare sia la funzione di promotrici della coesione e dell’equità sociale sia l’origine basata sulla partecipazione attiva dei cittadini di queste organizzazioni.
Ma chi e quante sono e cosa fanno le “Volag” in India? Cento esperti e leader provenienti da 22 nazioni ne hanno discusso a metà luglio a Bangalore (India), durante la conferenza promossa dall’Institute for Policy Studies- Center for Civil Society Studies, diretto da Lester Salamon, della Johns Hopkins University di Baltimora. Non esistono dati complessivi e coerenti sul numero di queste organizzazioni. Certamente se ne possono contare oltre un milione (registrate e non) di cui un numero non precisato, tra 100 mila e 400 mila si impegna in attività di sviluppo locale. Sono proprio queste ultime che, con strutture organizzative, fonti di finanziamento e modalità di lavoro diverse cercano di influenzare il processo, la pianificazione dello sviluppo e del cambiamento sociale con un nuovo approccio che porti alla costruzione di una società civile pluralista. Un ruolo che le riporta alle origini – antichissime – del volontariato in India: già nel ’700, infatti, nel periodo pre-coloniale, si hanno le prime forme di associazionismo impegnato soprattutto nel campo dell’educazione, della medicina e assistenza sanitaria. Ma è nel periodo coloniale (1810-1947) che si crea un vero e proprio movimento di volontariato che assume connotazioni diverse in relazione alla religione ed all’ideologia di appartenenza con l’introduzione di componenti anche politiche nel movimento. La fase successiva all’indipendenza (dal 1947 fino alla fine degli anni ‘50) è caratterizzata dall’emergere di numerose organizzazioni non profit di ispirazione ghandiana e di organizzazioni religiose.
Contro le separazioni e le caste
L’esplosione del settore si verifica negli anni ‘60-’70, quando nascono le Welfare oriented-groups, organizzazioni non-governative supportate da finanziamenti internazionali, costituite da professionisti della middle class, oppure da poveri con l’aiuto dei governi locali, o ancora organizzazioni promosse dal governo indiano. Un fiorire di solidarietà che nasce da precisi bisogni: l’India infatti in quegli anni viene colpita da numerose calamità naturali e dai disastrosi effetti della guerra contro il Bangladesh. Alla fine degli anni ‘70 nascono poi organizzazioni orientate verso attività di empowerment per la comunità locale e la cittadinanza in generale. Questi anni, infatti, sono caratterizzati da un generale malcontento verso il modello di sviluppo adottato dal governo e dai partiti di sinistra.
Le contraddizioni più gravi sono però dei giorni nostri, degli anni ’80 e ’90, quando si formano e aumentano velocemente i movimenti separatisti ed etnici (Sikh, Kashimiri, Nepali, Hindu), che danno origine ad una serie di conflitti interni. Allo stesso tempo si afferma sempre di più il ruolo delle Civil Society Organizations che operano soprattutto nel campo dello sviluppo, svolgendo un ruolo di intermediari tra donors e fasce deboli; e dell’empowerment, creando network su problemi che riguardano la popolazione in generale (ambiente, energia nucleare, diritti dei minori e delle donne), promuovendo campagne di sensibilizzazione e svolgendo attività di ricerca e documentazione. In questi anni, il governo, messo continuamente in discussione dai movimenti indigeni, avvia una politica di maggior controllo sull’operato di forme organizzate della società civile sostenendo quelle apolitiche; allo stesso tempo la consapevolezza che tali organizzazioni siano un nuovo ambito di occupazione che attira giovani professionisti rafforzando così la capacità di intervento del settore.
Anche le organizzazioni indiane si interrogano sulla situazione del Paese e sul ruolo che possono assumere. Vogliono capire se esiste qualche speranza per la loro partecipazione alla programmazione politica, alla decentralizzazione dei poteri. Vorrebbero promuovere il cambiamento sociale, contribuire alla costruzione di una società civile. La contraddizione data dal coesistere delle tradizionali norme sociali (caste) con la presenza di presunte istituzioni liberali, la corruzione della classe politica, l’aumento della criminalità e dei conflitti tra i gruppi sono questioni che richiedono cambiamenti radicali con un impegno politico più forte da parte del Terzo settore.
E questa è la vera sfida.
Shanti vince il Nobel contro la droga
Si chiama Shanti Ranganathan, viene dall’India, e il 19 luglio scorso è stata insignita del prestigioso United Nations Vienna Civil society Award. Una sorta di Nobel per le azioni a favore della società civile istituito quest’anno dall’Ufficio Onu contro il commercio della droga e la prevenzione del crimine (Odccp), la città di Vienna e il governo austriaco. Il merito di Shanti? Oltre a essere la massima auctoritas del Paese in fatto di lotta alla droga e recupero di persone alcolizzate, questa grande donna indiana ha fondato il più grande centro di cura e ricerca per gli abusi da droga dell’India. La TT Ranganathan Clinical Research Foundation di Chennai, nell’Indira Nagra. Un impegno che, insieme ai campi di disintossicazione gratuiti organizzati da Shanti nei villaggi, le Nazioni Unite hanno premiato con una medaglia e 200 milioni di lire. Che, oltre a Shanti, sono andati all’ugandese Rogers Kasirye premiato per il suo impegno con i bambini di strada, alla Fondazione Atzeca messicana cui l’Onu ha riconosciuto il merito di aver organizzato un programma di supporto telefonico per persone con problemi di droga e al Dapc, un centro giapponese per la prevenzione e gli abusi di stupefacenti. Per informazioni: TT Ranganathan Clinical Research Foundation, TTK Hospital, 17 IV Main Road, Indira Nagar, Madras 600 020, India.
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