Sostenibilità
L’economia che contrasta la rabbia del pianeta
Il 29 marzo Palazzo Vecchio, a Firenze, farà da cornice al confronto fra studiosi come Jeffery Sachs della Columbia University ed Enrico Giovannini, portavoce Alleanza sviluppo sostenibile. Al centro il tema del riscaldamento globale
di Sergio Gatti
24 febbraio. Roma, Villa Ada.
Due giorni e due notti di vento inedito sdraiano decine di pini, taluni secolari. Solo poche ore prima erano ancora in piedi. Sono stati la cornice scontata di giochi per generazioni di infanzie. Casa per scoiattoli, passeri, rondini e pure pappagalli. Tornano in mente i milioni di abeti abbattuti dal fortissimo vento di scirocco quattro mesi fa, nelle valli venete e trentine. Un po’ di incuria (soprattutto nelle grandi città) e molto cambiamento climatico.
24 gennaio. Vetta del Chimborazo, 6.130 metri, il più alto vulcano dell’Ecuador.
A distanza di meno di cinque anni, il ghiacciaio che circondava la vetta è irriconoscibile. Si è ritirato. Sul versante più esposto al sole, quello verso il Pacifico, dopo millenni il bianco del ghiaccio ha lasciato il posto ai colori scuri delle pietre laviche. Da ovest si vede la calotta bianca tagliata: è spessa più di trenta metri. Ma è a rischio. Quanto resisterà? In una manciata di anni si stanno “bruciando” riserve d’acqua accumulate in ére geologiche.
Poco più a valle, fra i tremila e i quattromila metri di altitudine, migliaia di campesinos guardano preoccupati il vulcano. È spento ma è sempre più nero, segno del “cambio climatico”. La siccità o le improvvise inondazioni mettono a rischio le coltivazioni di quinoa, fagioli, mais. Lavorano la terra, la “loro” terra. Riscattata — dopo generazioni vissute da servi della gleba — con un piccolo prestito della banca di villaggio, da restituire poco alla volta. Una delle centinaia di piccole banche promosse dal Fepp e da BancoDesarrollo. Ma se non piove quando e quanto dovrebbe, la terra inaridisce e non dà frutto. E se quando piove la pioggia diventa torrenziale, le piccole piantagioni su rettangoli scoscesi vengono travolti, i pascoli sconvolti. «Senza il frutto della terra e senza il latte per fare formaggio non ho nulla da portare al mercato: come pago la rata del piccolo credito ricevuto?», dice Miguel. Non c’è contraddizione tra lotta alla povertà e contrasto al cambiamento climatico.
Le popolazioni andine sembrano più consapevoli e reattive di molte popolazioni metropolitane. E le loro banche di comunità hanno inventato la “finanza climatica”. Come gestire, nelle annate di siccità o di alluvioni, il debito contratto per acquistare la terra o un piccolo mezzo agricolo o qualche pecora? Quali forme nuove di assicurazione servono per proteggere una famiglia campesina dal cambiamento climatico così violento? Arrivano le prime, semplici risposte. Qualcosa si muove anche in Europa. I processi normativi, complessi e un po’ troppo improntati alla micro-regolamentazione, sembrano andare però a rilento rispetto alla velocità del vento, del caldo, delle tempeste di neve. Tutto un po’ estremo.
Economia climatica
La temperatura media della superficie del nostro pianeta, afferma la Nasa è salita di quasi 0,9 gradi Celsius rispetto ai livelli dell’epoca pre-industriale. L’anomalia maggiore si è avuta nel 2016, l’anno più caldo di sempre. Dei diciannove anni più caldi di sempre, diciotto si sono verificati a partire dal 2000.
C’entra l’uomo? Sì, secondo il 95% degli scienziati che studiano il clima: il cambiamento climatico ha natura antropogenica. Lo scioglimento delle calotte polari, dei ghiacciai in Antartide e in Groenlandia, la dilatazione termica dell’acqua di mare ha fatto crescere di 20 centimetri il livello globale del mare nell’ultimo secolo.
L’economista di Yale, William Nordhaus, premio Nobel 2018, ha stimato i danni economici del cambiamento climatico: a perderci di più sarebbero i poveri e gli abitanti delle regioni tropicali. Le soluzioni alla grande sfida del cambiamento climatico più efficienti ed efficaci debbono venire dal mercato, secondo Nordhaus, uno dei sistemi più potenti del pianeta, purché supportati da politiche governative lungimiranti e incisive, anche sul piano fiscale. Naturalmente le politiche di aggiustamento debbono essere eque e bilanciate, graduali e ben spiegate. Altrimenti rischiano di essere mal percepite e respinte.
Secondo un’indagine della Banca Europea degli Investimenti con YouGov del dicembre scorso, su 25mila intervistati tra europei cinesi e statunitensi, per gli italiani i cambiamenti climatici determineranno effetti sulla qualità della vita e sulle condizioni economiche: il 62% teme effetti sulla salute (nuove malattie o peggioramento di quelle esistenti, a causa del clima più caldo o di eventi meteorologici estremi); il 54% ha paura degli effetti finanziari (aumento dei costi assicurativi, energetici, alimentari, delle tasse); il 53% delle minacce alla sopravvivenza (alluvioni, carenza idrica, conflitti sulle risorse); il 38% degli effetti sulla socieà e sulle condizioni sociali (aumento del numero di migranti); il 31% degli effetti sull’occupazione e sulla situazione lavorativa (perdita di posti di lavoro in settori industriali in cui il clima ha rilevanza); il 26% degli effetti sul tenore di vita (meno cibo, meno tempo libero); il 18% degli effetti sulla situazione abitativa (necessità di trasferirsi). Lo 0% degli italiani dice che non esiste alcun cambiamento climatico.
Meno diffusa è la convinzione che le misure per affrontare il cambiamento climatico possono determinare benefici per la crescita economica e creare un numero significativo di nuovi posti di lavoro.
Palazzo Vecchio, a Firenze, il 29 marzo farà da cornice al confronto fra studiosi come Jeffery Sachs, Columbia University ed Enrico Giovannini, portavoce Alleanza sviluppo sostenibile, e diversi altri nell’ambito del Festival dell’Economia civile. Contrastare la rabbia del pianeta e di uomini e donne alla ricerca di senso e di condizioni di vita e di lavoro. La scoperta o la conferma che c’è un’Economia che serve.
*Sergio Gatti è Direttore generale di Federcasse
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.