Cultura

Il doping accorcia la vita

La ricerca condotta su 2.363 atleti rivela che il tasso di decessi precoci per cause vascolari è 250 volte superiore alla media europea.

di Luciana Manari

S ì, il ciclismo è uno sport professionistico ad alto rischio. Più che una semplice affermazione ormai si tratta di una realtà scientificamente provata. E i francesi, che al Tour si appassionano come gli italiani fanno con la Ferrari, quest’edizione della manifestazione ciclistica più blasonata del mondo l’hanno definita “Un Tour a l’eau claire”. Ma i medici sportivi che conoscono a fondo l’ambiente aggiustano la definizione: sarà un Tour all’“acqua distillata”, intendendo la base delle flebo che i corridori si iniettano nelle vene quando il sangue si addensa superando la soglia di guardia (oltre 50 di ematocrito, com’è successo a Pantani durante il Giro). Ma cosa, e come, è successo in questi anni nel ciclismo professionistico? Quali traguardi sono stati polverizzati, mentre erano puro sogno per i pionieri su due ruote con i copertoni incrociati sul petto in sella a bici grosse come motociclette? Il settimanale francese Le Nouvelle Observateur, supportato scientificamente da un pool di medici dello sport di tutt’Europa, pubblica sull’ultimo numero un statistica dai risultati agghiaccianti, eseguito su 2.363 ciclisti professionisti europei, il 90 % dei corridori che hanno partecipato al Tour de France a partire dalla prima pionieristica edizione post bellica del 1947. Da quest’inchiesta risulta un tasso di mortalità dovuto a cause vascolari due volte e mezzo superiore alla media europea, e cinque volte superiore se si considera la fascia d’età compresa tra i 25 e i 34 anni. Per l’Organizzazione mondiale della sanità, in tutta la popolazione europea i decessi imputabili a complicazioni cardiache dovrebbero rimanere al di sotto del 4%. Ma tra i professionisti del pedale il valore s’impenna al 10%. Dal 1947, 238 sono i ciclisti deceduti (giusto il 10 per cento del totale dei partecipanti ai Giri francesi). Per meglio osservare l’evoluzione dei rischi, i corridori sono stati divisi in due gruppi: da una parte gli “anziani”, quelli che hanno affrontato il Tour tra il 1947 e il ’70, e quindi i “moderni”, dal 1971 in poi. Le principali cause delle morti sono: il cancro, le malattie vascolari e infine incidenti vari. Il risultato più eclatante riguarda proprio la ripartizione dei decessi precoci d’origine vascolare. Su 2.363 corridori, ne sono stati individuati 28 per la trance 25-54 anni. Un dato di per se non inquietante. Ma se si considerano i ciclisti nella fascia 25-44 anni si scopre una strana anomalia: per gli “anziani” i 7 decessi sono nella media europea indicata dall’Oms, ma i 10 morti tra i “moderni”, che avrebbero dovuto essere 4, sono decisamente sospetti. Addirittura, nella fascia 25-34 anni, il risultato è ancora più tragico: 6 vittime al posto di 1,2 previsto dall’Oms. Considerando le età dei ciclisti testati, qualcosa di “strano” deve essere successo dopo il 1970. Una spiegazione peraltro l’aveva già data il tre volte maglia gialla Jacques Anquetil a l’Equipe: «Bisogna essere imbecilli o collusi al business per pensare che un ciclista professionista possa gareggiare per 235 giorni all’anno senza l’aiuto di stimolanti». A oggi lo stakanovista del pedale risulta essere il belga Freddy Maertens, che nel 1978 ha partecipato a 220 corse, vincendone 56 e totalizzando 23 giorni di gare solo tra il 24 marzo e il primo maggio. “La guerra degli stimolanti – scrive Le Nouvelle Observateur – era cominciata con “la bomba” anfetaminica del grande Fausto Coppi”. Sarà vero, ma quella era artigianale “archeologia dopante”. Negli anni Settanta sono arrivati cortisoni e anabolizzanti, all’alba degli Ottanta gli ormoni della crescita e negli ultimi tempi c’è stata l’Epo (eritropoietina), che può essere nascosta ai test in pochi minuti. Rimane da chiedersi, se è giusto che solo il ciclismo professionistico venga fucilato con pallottole dopate. Oppure, se riesumando dalle sabbie mobili i risultati dei test ematici di altri sport (pugilato, tennis, atletica, o calcio, come si ostina a dire il procuratore di Torino Raffaele Guariniello) non si scopra che in fondo i ciclisti hanno solo fatto la figura dei dilettanti allo sbaraglio. Il “laissez doper”, insomma, non deve valere per nessuno. Né per i miliardari a pedali né per i megamiliardari del pallone. Se ti vuoi bene a un certo punto smetti «Se i ciclisti non si fermano, si distruggeranno. Ormai questo sport è stato spinto verso la totale esasperazione. Per essere un campione non basta andare più forte degli altri, devi andare più forte del giorno prima. E allora, non rimane che acchiappare la prima fialetta che ti passa vicino e andarci a letto insieme». A parlare è Andrea Stocco, 28 anni, varesino, che dopo aver corso per due anni da professionista nella squadra del vincitore di un Giro d’Italia, Ivan Berzin, ha deciso di lasciare per fondare il team di ciclisti under 23 “Regione Insubrica”. «Non ho lasciato il professionismo per non aver accettato le regole del gioco, ma semplicemente perché non era più divertente. Si vince solo se si riesce a mascherare la fatica con stimolanti e eccitanti. E poi si paga con la vita quando si il fisico comincia a essere debole. Che sport è questo». Ai suoi ragazzi, tra i 18 e i 23 anni, insegna che la prima regola di questo sport è il sacrificio, la generosità, la correttezza durante la gara. Sembra di tornare indietro di decenni. «Stanno rovinando anche i giovani con la diffusione del doping nel ciclismo. È sempre più difficile per qualsiasi allenatore impedire a un ragazzo bravino del vivaio di “farsi”, se questa è l’anticamera del professionismo».


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