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La corsa al Tribunale

Con la firma dell'Italia il numero degli Stati ratificanti giunge a quattro:un esempio che si spera venga imitato dall'Europa.

di Paolo Giovannelli

Il primo luglio scorso l’Italia ha aderito alla Corte penale internazionale: oltre quattrocento i voti dei deputati favorevoli alla ratifica dello Statuto. E, dunque, più di trenta ong italiane vincono così una battaglia importante a livello nazionale per il funzionamento di uno strumento internazionale permanente, giudice dei crimini internazionali. Ma la strada è ancora lunga per un reale funzionamento del primo e unico puntello che i governi mondiali del Terzo Millennio porrebbero essenzialmente a se stessi. E alla loro “violenta” politica internazionale, testimoniata da un secolo che ha visto due conflitti mondiali e innumerevoli quanto irrisolte guerre locali, nelle quali “l’uso” della popolazione civile gioca sempre di più un ruolo di primo piano.
Una strada lunga, dicevamo, e da percorrere in fretta, perché manca meno di un anno al 30 giugno 2000, data in cui si faranno i conti per vedere se la Corte avrà guadagnato le sessanta ratifiche necessarie al suo reale funzionamento. Al momento il counter si è fermato a quattro Paesi, di cui l’Italia è l’unico ad avere un certo peso internazionale, il che è tutto dire. Ma gli altri Paesi sono San Marino, Trinidad e Tobago e Senegal. Comunque sia, in questi giorni c’è spazio per i festeggiamenti. Soddisfatto è, infatti, il deputato diessino Marco Pezzoni, che ha spinto per mettere la questione-ratifica all’ordine del giorno della Camera: «È andata più che bene, in un Parlamento come quello italiano dove il grande tema dei diritti umani e dei temi internazionali è di solito relegato al lunedì pomeriggio, quando in aula siamo di media in tre».
Ora, dunque, a differenza dei tribunali dell’Aia e di Arusha, approntati per indagare i responsabili dei massacri della ex-Jugoslavia e della regione africana dei Grandi Laghi, il governo italiano si è messo in gioco per puntare decisamente sull’effetto deterrente che la presenza di una Corte penale internazionale potrebbe avere. Un concetto ben spiegato da Daniele Scaglione, presidente di Amnesty International Italia: «Dovrà essere una vera pietra miliare nella politica internazionale, perché giocherà un ruolo assolutamente inedito nel panorama mondiale in quanto preesistente al possibile conflitto, sul quale potrà lavorare in forma preventiva». Ed è abbastanza fiducioso Scaglione: «Il parto di questa Corte è e sarà difficile, ma dovrà avvenire, assolutamente. La decisione di questo strumento di giutizia è ora in mano ai governi mondiali, quegli stessi governi che in nome della giutizia non si fanno tanti problemi a scatenare una guerra. Gli Stati Uniti si propongono come un ostacolo, ma che non sarà insormontabile, perché il governo di questo Paese, come gli altri, dovrà forzatamente rendere conto all’opinione pubblica. In gioco, infatti, c’è proprio la credibilità dei governi mondiali, che dovranno mostrarsi capaci di creare un organismo al di sopra delle parti, dato per scontato a livello nazionale – dove il giudice e il politico hanno ruoli e responsabilità diverse -, ma che manca, e serve, a livello internazionale».
L’attesa e la preoccupazione per le ratifiche diventano quindi l’appuntamento in agenda; anche perché la Corte, già limitata nella sua autonomia (i Paesi ratificanti per sette anni potranno infatti contare sull’opting out, cioè l’opzione di chiamarsi fuori), avrà valore solo nei Paesi che con la firma ne avranno dato battesimo. E se l’Italia, Paese che ha spinto molto sull’accelleratore della Corte, ci ha messo un anno dalla Conferenza svoltasi dal 15 al 17 luglio del 1998 presso il palazzo della Fao di Roma (dove centoventi stati accettarono il “Pacchetto Kirsch”, respinto invece da Stati Uniti, Cina, Israele, Iraq e Qatar), le previsioni non sono delle più allegre.
Ma, come ci spiega David Donat-Cattin dell’ong Parlamentarians for Global action (Pga), consistente lobby di parlamentari che si occupa di diritti umani alle Nazioni Unite, l’adesione dell’Italia è sicuramente un atto “pesante” anche per altri stati dell’Unione europea. E così la Coalizione per la creazione di una Corte penale internazionale (Cicc), gruppo di pressione composto da un fitto schieramento di ong, attende l’innescarsi di una virtuosa reazione a catena: sull’esempio italiano potrebbero presto ratificare sia la Francia che il Portogallo, che trascinerrebbero con sé tutti quei Paesi francofoni e lusofoni, soprattutto dell’Africa e dell’America meridionale, loro ex colonie. «Ora è decisivo che si raggiunga il numero di stati ratificanti entro breve tempo», conferma Donat-Cattin. «Ma a questo scopo è necessario che non cali l’euforia né l’attenzione sull’importanza di questo organismo, specie in sede di Unione europea. Confido molto nel ruolo del nostro Paese, affinché tale tema non venga eliminato dall’agenda politica degli stati europei. L’appuntamento è a New York, il 30 giugno, quando la Commissione preparatoria delle Nazioni Unite chiuderà i lavori, redigendo gli ultimi documenti, che renderanno operativa la Corte penale internazionale».
In attesa, dunque, dei processi veri, alcune ong hanno “festeggiato” la ratifica italiana durante un convegno dove è stata operata una simulazione del funzionamento della Corte. Anche perché, verosimilmente, fra Stati che nutrono un profondo “rispetto” l’uno dell’autonomia dell’altro, toccherà spesso alla società civile denunciare le violazioni di gravi crimini contro l’umanità. La sezione italiana di Amnesty International chiede sin d’ora la sbarra per le violenze commesse in Birmania, mentre l’associazione Amani ha presentato istanza di denuncia contro il Sudan per i genocidio del popolo Nouba. È stata, quindi, la volta del dottor Jasim Tawfik Mustafa che, per conto della comunità curda in Italia, ha inoltrato denuncia al procuratore della Corte contro il leader iracheno Saddam Hussein, responsabile dell’operazione Anfal, la più crudele carneficina mai perpetrata nella storia ai danni del popolo curdo. Infine, anche la Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli ha presentato una denuncia. I crimini contestati dal portavoce Jorge Ithurburu riguardano il campo di raccolta “La Perla” in Argentina, dove fra il ’76 e il ’79 trovarono la morte circa 2.200 prigionieri, fra cui anche alcuni italiani. E poiché molti cadaveri non sono mai stati ritrovati, anche i desaparecidos di questo campo sono/sarebbero un caso per la Corte penale internazionale.

I pro e i contro articolo per articolo

La Corte penale internazionale può esercitare il suo potere esclusivamente sulle persone fisiche (art.1) e, dunque, il suo giudizio non si può rivolgere verso gli Stati. La Corte ha sede all’Aia (art.3). I crimini di competenza della Corte sono, invece, fissati dall’articolo 5: si tratta di crimini di genocidio, contro l’umanità, di guerra e di aggressione. Il “crimine di guerra”, in conflitti interni o internazionali, è particolarmente soggetto al giudizio della Corte se fa parte di un piano o di un disegno politico, o come parte di una serie di crimini analoghi commessi su vasta scala (art.8). Il limite più evidente della Corte riguarda il suo essere solo un organo “sussidiario” alle giurisdizioni penali nazionali (art. 1). Inoltre, quando operativa, potrà giudicare solo su crimini commessi dopo l’entrata in vigore dello Statuto stesso, ossia dopo l’avvenuta ratifica da parte di 60 Stati (art. 11); inoltre, spetterà ai singoli Stati di accettare o meno, sottoscrivendo lo Statuto, la competenza della Corte (art. 12). Se poi le istituzioni di un Paese dove i diritti umani elementari appaiono violati non vogliono riconoscere il ruolo della Corte, allora solo il Consiglio di sicurezza dell’Onu potrebbe autorizzarla a intervenire (art.16).

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