Welfare
Educatori professionali negli enti locali: Comune che vai, contratto che trovi
Gli Educatori Professionali vengono inquadrati in maniera differente dagli Enti locali, così che colleghi di Comuni o Consorzi limitrofi si ritrovano con inquadramento, salario e riconoscimento giuridico e funzionale molto diverso. Il 20 e 21 marzo si riaprono i tavoli della commissione paritetica dell'Aran. Questa lettera di un educatore professionale spiega le attese
di Fabio Ruta
A differenza del CCNL della Sanità, che inquadra da lungo tempo gli educatori professionali nella loro giusta fascia di merito (categoria D, corrispondente alla laurea o titolo equipollente) e dei tanti altri contratti che nel tempo si sono progressivamente adeguati, resta un enorme "buco nero" nel riconoscimento economico e giuridico di questa figura. Si tratta del comparto strategico degli Enti Locali, il cui relativo contratto pubblico (CCNL Regioni Autonomie Locali) nemmeno menziona nelle declaratorie di classificazione del personale gli Educatori Professionali.
Eppure siamo un nutrito e pacifico "esercito" sul quale si reggono i servizi sociali gestiti da Comuni e Consorzi. Rivolti alla disabilità fisica e psichica, ai minori, ai migranti, agli anziani, alle fasce deboli deboli della società. Per la verità il CCNL per i profili non menzionati alle declaratorie rimanda ad una interpretazione analogica: ad una figura a cui è richiesta la laurea andrebbe automaticamente conferito un incarico in fascia D ( se viene richiesta una laurea triennale o titolo equipollente), oppure D3 (se viene richiesta una laurea specialistica). Purtroppo ciò sovente non avviene per quanto riguarda gli educatori. Molti enti del comparto continuano ad inquadrare in fascia C queste figure professionali: con il duplice effetto di riconoscere loro una paga inferiore a quella dovuta e di negargli un adeguato riconoscimento giuridico del percorso di studi effettuato (e dunque del livello di professionalità e competenze acquisito).
Questa duplice "batosta" si lega spesso ad un terzo elemento: la diffusa abitudine di considerare gli educatori come dei factotum, ai quali non di rado vengono impropriamente richieste – esplicitamente o implicitamente – mansioni specifiche di livelli inferiori. A questi tre guai, sovente se ne aggiunge un quarto: la assenza o riduzione di forme di supervisione, consulenza, manutenzione del lavoro educativo (ciò avviene in particolare in quegli enti soggetti a difficoltà di bilancio).
Tutti questi fattori si legano insieme nel causare e favorire forme di "malessere organizzativo". Nel provocare stress lavorativo e frustrazione in una figura professionale tra le più esposte (in quanto helping profession, insieme ad altre categorie come infermieri, assistenti sociali, Oss…) al fenomeno del burnout e del malessere lavorativo, che – vale la pena ricordare – incide sulla salute psicofisica dei lavoratori e sul livello di qualità dei servizi erogati alla utenza. Nonché nel comportare ingenti danni economici agli enti (attraverso voci come l'assenteismo) ed al sistema sanitario ( per le patologie stress correlate).
Torniamo ora al punto di partenza, il contratto degli Enti Locali. Ciò che si è verificato, in costanza di questa mancata definizione all'interno delle declaratorie del profilo, è una situazione paradossale. Una parte di enti si è comportata in modo corretto: inquadrando nel tempo gli EP in fascia D. Tra i primi ed i più virtuosi il Consorzio dei Servizi Sociali del Verbano (in provincia di Verbania), il comune di Novara ed i consorzi di Romentino, Borgomanero e Castelletto ticino per la provincia di Novara (seguiti poi da altri Comuni, Consorzi, enti del comparto). Molti altri enti invece – facendosi beffa del principio analogico sopra citato – hanno perseverato nel collocare gli Educatori Professionali in fascia C, pur richiedendo loro come requisito di ammissione ai pubblici concorsi la laurea o titolo equipollente. In Italia quindi la nostra figura è inspiegabilmente inquadrata a "macchia di leopardo ".
Il contratto è nazionale e dovrebbe avere omogenea applicazione su tutto il territorio. Ma colleghi che lavorano con lo stesso contratto, magari di comuni o consorzi limitrofi, si ritrovano con inquadramento, salario e riconoscimento giuridico e funzionale molto diverso. Questa condizione, di per sé intollerabile, comporta inoltre problemi per la mobilità intercompartimentale di queste figure nei diversi settori del pubblico impiego (ed anche tra servizi del medesimo comparto).
Ormai da oltre venti anni le organizzazioni sindacali promettono di intervenire risolutivamente in ambito di rinnovo del contratto nazionale. Ma ad ogni rinnovo – puntuale come un lunedì lavorativo – la questione viene demandata a commissioni paritetiche istituite presso l'Aran. Per poi essere rimandata al successivo rinnovo contrattuale. Se poi si aggiunge che il blocco dei contratti del pubblico impiego è durato per molti anni, possiamo accorgerci da quanto tempo questi professionisti attendano invano giustizia contrattuale. La famosa commissione paritetica per la revisione della classificazione del personale è stata puntualmente istituita anche in coda dell'ultimo rinnovo contrattuale. Avrebbe dovuto espletare il suo compito entro il luglio scorso. Vi sono state le elezioni, un cambio di governo: tutti elementi che ne hanno rallentata la convocazione. Ma – come avrebbero detto gli antichi – pacta sunt servanda. È ora che si metta fine a questa situazione con parole chiare, scritte nero su bianco all'interno delle declaratorie contrattuali. I sindacati hanno protestato di fronte all'Aran ottenendo la riapertura dei tavoli della commissione paritetica, convocati per il 20 e 21 Marzo. Si spera che questa sia finalmente la volta buona e che si ottenga ciò che da almeno vent'anni si attende e che è dovuto.
Una ulteriore fumata nera sarebbe davvero insopportabile per una categoria che svolge un lavoro difficile, che la legge riconosce una formazione di livello universitario. E che in tempi recenti ha mostrato un risveglio partecipativo ed inedite capacità di mobilitazione. Una categoria di cui universalmente si professa la utilità sociale, ma con salari tra i più bassi d'Europa. "Mal payé" come si legge in un articoli in lunga francese su questo tema. Si riconosca, attraverso la leva contrattuale, la giusta dignità professionale a questi lavoratori.
Photo by Timon Studler on Unsplash
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.