Famiglia

Ai nostri bambini un Sorriso grande come una casa

Una terribile malattia si portò via Giuseppe, l'ultimogenito. Ma loro, Gino e Elsa non si sono arresi: da quella tragedia hanno riscoperto la voglia di vivere e l'impegno della solidarietà.

di Nadia Verdile

Aveva occhi vispi e intelligenti Giuseppe Ferraro; tre anni e tre mesi quando disse per sempre addio ai suoi genitori. A portarlo via un’encefalite virale, complicazione maledetta di un’influenza. Era l’alba del 4 gennaio 1994, che si presentava funesto per Elisa e Gino, mamma e papà di quel cucciolo che in due settimane di malattia li salutò per sempre. Dapprima ricoverato presso l’ospedale di Maddaloni, cittadina del Casertano dove vive e lavora la famiglia Ferraro, poi a Napoli: qui il piccolo Giuseppe entra in coma per non svegliarsi più. L’assegno restituito «Un dolore senza pari», ricorda la madre Elisa, «che abbiamo avuto la forza di riconoscere e sopportare solo grazie alla grande fede in Dio. Ricordo il viaggio da Maddaloni a Napoli, in automobile, seguendo il nostro piccolo Giuseppe che era nell’ambulanza… Non riuscivo a capire cosa stesse accadendo, l’unico pensiero, profondo, che riuscivo a sentire in me era “Dio mio, dammi la forza di capire ed accettare”». Elisa è insegnante, Gino medico. Oggi hanno cinque figli: Giovanna, 15 anni, Mariella 13, Giuseppe e Antonio di 4 e Vincenzo, l’ultimo arrivato che soltanto tre mesi. «Nella disperazione di quei giorni», dice Gino, «fummo aiutati da tutti. Un’amica ci suggerì di “donarci”, di donare ad altri il nostro amore. Dopo un po’ di giorni dalla perdita di Giuseppe, mentre eravamo in preda alla disperazione più assoluta, una coppia di amici ci propose di trascorrere con loro qualche giorno a Loppiano, in Toscana, dove c’è la sede del Movimento dei Focolari di cui facciamo parte. Quella settimana fu di grande aiuto per i nostri cuori divorati dal dolore. In quella cittadella cominciammo a sentir crescere in noi la forza di trasformare in amore il nostro strazio». I coniugi Ferraro insistettero per restituire agli amici che li avevano accompagnati i soldi della permanenza a Loppiano, ma questi con un assegno restituirono loro, al ritorno, l’intera cifra. Fu in quel momento che decisero di versare sul loro conto corrente quel denaro, con l’intento di aggiungerne altro che potesse servire a fare qualcosa, a intraprendere qualche iniziativa in memoria di Giuseppe. Ecco come ci è venuta l’idea «L’idea della Fondazione», racconta Elisa mentre stringe a sé il piccolo Vincenzo, «nacque da lì. La morte di Giuseppe ha cambiato radicalmente il nostro modo di pensare, ci ha fatto comprendere intimamente la futilità dei nostri progetti e l’esigenza di qualcosa di profondo che desse significato a quello che ci era accaduto e a quello che ancora ci doveva accadere. Insomma, cercavamo un senso al nostro passato e al nostro futuro. Sembrerà strano, ed inizialmente lo era certamente anche per noi, ma invece di stare continuamente a chiederci il perché di quanto era accaduto e a crogiolarci in quel dolore, abbiamo sentito una forte spinta alla condivisione e alla solidarietà. Ci siamo subito aperti agli altri cercando di preoccuparci per prima cosa del nostro prossimo più prossimo: marito, moglie, figli, genitori, fratelli… Inconsciamente, sentivamo che non pensando a noi stessi ma al dolore degli altri colmavamo quel grande vuoto che c’era in noi. Naturalmente questa spinta è nata soprattutto dalla nostra fede, però sentiamo che indipendentemente da ciò, tutti insieme possiamo fare veramente cose di grande utilità per il prossimo». «L’esperienza da noi vissuta», continua papà Gino, «ci ha portato a riflettere sul modo di vivere, sulla cultura del nostro tempo fatta soprattutto di avere e di ricerca del benessere. L’iniziativa di costituire una Fondazione è tesa ad uscire dalla logica ristretta dell’interesse personale per entrare non solo in quella del donare, ma anche in quella del donarsi. Tra gli obiettivi c’è quello di contribuire alla nascita di nuove persone, che abbiano fortemente a cuore il vivere con e per gli altri, che possano diventare diffusori e stimolo di una nuova cultura: quella del dare: non utilitaristico, ma che nasce dalla libertà di destinare una parte di sé all’altro». Nasce la Fondazione dedicata a Giuseppe Così il 16 dicembre 1994 nasce a Maddaloni la Fondazione “Giuseppe Ferraro” per operare nel delicato settore dell’assistenza ai minori, per sostenere e dare un’aiuto concreto ai bambini di famiglie che versano in precarie condizioni economiche e in cui uno o entrambi i genitori non sono moralmente o fisicamente presenti. Lo scopo della Fondazione è promuovere quegli ideali di famiglia e di utilità che tanto spesso, in queste particolari realtà, vengono a mancare. Il disagio infantile è il punto nodale intorno al quale si svolge l’attività della Fondazione che si esplica attraverso la promozione e realizzazione della cultura dell’affido, la gestione della casa famiglia “Sorriso”, il sostegno morale e materiale ai bambini, ma anche attraverso la preparazione di nuovi operatori sociali e famiglie affidatarie in incontri e corsi riguardanti l’affido famigliare e l’accoglienza nella casa famiglia. Ma cos’è la casa famiglia “Sorriso”? È una casa che accoglie bambini in difficoltà dai 3 ai 12 anni, in attesa che gli organi pubblici competenti procedano all’affido familiare o all’adozione (qualora non sia possibile il reinserimento nella famiglia d’origine), garantendo loro il calore di una famiglia che forse non hanno mai avuto e che va recuperata per poterli poi reinserire. E per far questo c’è bisogno che una grande rete di solidarietà continui a essere costruita intorno a Elisa e Gino e a quanti con loro hanno iniziato un cammino veramente difficile per dare una risposta concreta e soprattutto alternativa alla violenza sui minori, di fronte alla quale ognuno è spesso disposto solo a commuoversi e non più di tanto. Sulla difficile strada dell’affido «Quando abbiamo iniziato», ricorda Gino Ferraro, «molti pensavano che la Fondazione fosse solo una risposta a un particolare momento di dolore. Invece, nel giro di pochi anni, è divenuta una realtà nel tessuto della nostra provincia, molto distratta rispetto alla cultura del sociale e alla tutela dei minori. Abbiamo iniziato ad operare aiutando i bambini presso le loro stesse famiglie, ma poi abbiamo compreso che ciò non bastava perché era solo una parte dei compiti che potevamo e dovevamo svolgere per i bambini delle nostre zone, a cui la classe politica non si interessa perché investire nel sociale non frutta voti nell’immediato. Così ci siamo incamminati nella difficile e impervia strada dell’affido temporaneo di alcuni bambini di famiglie che, essendo venute a conoscenza tramite noi di questa istituzione, espressero la loro disponibilità. Ci accorgemmo che era ancora poco e così è nato un progetto ancora più impegnativo della casa famiglia “Sorriso”: un ambiente familiare capace di accogliere un piccolo numero di bambini che, allontanati per varie ragioni dal loro habitat domestico, non potevano avere altra alternativa che finire in istituto. Oggi la casa “Sorriso” è una realtà non più sufficiente perché abbiamo bisogno di una sede in più e stiamo cercando di metterne su un’altra a Caserta». Che “cose turche”… Già a Caserta. Dove però i Ferraro non riescono a trovare un appartamento grande dove poter mettere su un’altra casa famiglia. Perché? «Per eccessiva diffidenza nei confronti della nostra idea», risponde Elisa. «Quasi come se andassimo a proporre ai proprietari di queste case “cose turche”. E poi la mancanza di “abitabilità” delle case stesse, uno dei fattori indispensabili per ricevere l’autorizzazione dal Tribunale. A Caserta, pare, si costruiscono le case senza questo requisito indispensabile!». Intanto le numerosissime iniziative della Fondazione “Giuseppe Ferraro” continuano, con la fattiva collaborazione del Comune di Maddaloni e di altri comuni della provincia, e del Tribunale dei minori, che fa ricorso alla Fondazione anche per le grosse carenze del servizio pubblico. E poi c’è la gente, i tantissimi volontari che a vario titolo donano il loro contributo, anche se sono loro due, Elisa e Gino, ad avere una marcia in più. Ma, come ci dicono loro stessi, «non siamo noi che facciamo le cose e che abbiamo le idee. Ci sentiamo portati per mano da Qualcuno, e così sarà Lui a farci fare, passo dopo passo, tutto il cammino che ha pensato per noi». Affidare stanca: così i minori finiscono in istituto In tutta la provincia di Caserta esistono 54 istituti di assistenza e istruzione (soprattutto istruzione) e sole 3 case famiglia per far fronte a una condizione dell’infanzia che non è tra le più rasserenanti nel panorama nazionale. Presso l’ufficio dei Servizi sociali della Provincia, il dirigente generale Carlo Crispino si difende così: «Se nella nostra provincia non ci fosse l’agro aversano, dove i valori e la morale sono difficili da incontrare, vivremmo in una condizione idilliaca. I nostri minori nulla avrebbero da invidiare a quelli di Como». Come se somigliare a Como garantisse la funzionalità di una provincia o di una amministrazione. A Caserta, come purtroppo altrove, la cultura dell’affido e della tutela dei servizi sociali lascia molto a desiderare. Non esistono statistiche e studi sulla condizioni dell’infanzia nel Casertano dopo il 1994. L’ufficio dove lavorano quattro assistenti sociali è sprovvisto di computer e il loro lavoro, non per volontà delle interessate, si riduce a mera burocrazia. Mancanza di volontà da parte dell’istituzione? Poca sensibilità? Secondo gli operatori del volontariato e dell’associazionismo, entrambe le cose. Investire nel sociale non porta voti e certi politici sanno che hanno bisogno di voti immediati, perché il loro futuro non sempre, politicamente parlando, può aspirare a lunga vita. La legge 184 sull’affido risale al lontano 1983. Sono passati 16 lunghissimi anni, ma i risultati sono scadenti. «È sempre più semplice per gli operatori del settore pubblico “piazzare” i bambini in difficoltà negli istituti con grande dispendio di risorse pubbliche» dice Salvatore D’Angelo del Progetto Peter Pan. «Perché per i servizi sociali l’affido comporta una grande lavoro e quindi, alla faccia delle esigenze dei bambini, continuano a essere parcheggiati scegliendo le soluzioni più facili». E intanto, i bimbi da zero a tre anni nella provincia di Caserta non hanno nemmeno un orfanotrofio a cui essere affidati e vengono mandati a Napoli o Benevento.


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