Sostenibilità

Quale ecologia, quale futuro?

Più che una specie distruttiva siamo una specie distratta. Non riusciamo a credere di avvicinarci nell'abisso finché non ci siamo caduti dentro. Sembra quasi che nessuno creda alla presenza dell'ambiente finché l'ambiente non diventa ostile e causa terrore e distruzione. Una riflessione sull'urgenza ecologica

di Pietro Piro

Un Sistema saldamente ancorato ai corpi e alle menti

Nell'introduzione del Manifesto per un XXI secolo contadino, l' economista e sociologa Silvia Pérez-Vitoria scriveva: "Le ripetute crisi che scuotono il mondo dall'inizio del XXI secolo dovrebbero indurci a ripensare i fondamenti della nostra società. È ormai evidente che, di fronte alle catastrofi presenti o future, domina il senso d'impotenza. Devastazioni spesso irreversibili colpiscono gli ambienti naturali: suolo, biodiversità, energia fossile, acqua, aria. Le contaminazioni si fanno sempre più gravi e sempre più pericolose. Intere aree sono divenute definitivamente radioattive, i mari sono contaminati dai rifiuti prodotti dalle attività umane; l'aria, l'acqua potabile, il suolo sono inquinati. Le perturbazioni climatiche sono sempre più frequenti […]. Con la drastica riduzione delle 'risorse', in tutto il mondo si moltiplicano le guerre. Intere società si disgregano. Esperti scientifici di ogni sorta, uomini politici, filosofi e altri specialisti in scienze umane si affannano a proporre soluzioni che il più delle volte non fanno altro che accompagnare la caduta. Il sistema resiste, talmente i suoi ingranaggi sono strutturati, interconnessi, saldamente ancorati ai corpi e alle menti degli uomini e delle donne del pianeta".

Ciò che mi colpisce di queste affermazioni non è tanto lo scenario apocalittico e i toni drammatici, quanto l'osservazione che il Sistema in cui viviamo sia saldamente ancorato ai corpi e alle menti.

Come negare che il mondo in cui viviamo non sia il frutto occasionale di una serie di cause accidentali quanto, piuttosto, il frutto di un desiderio, di un progetto, di un immaginario? Sappiamo tutti che lo stile di vita consumistico distrugge le risorse del pianeta e crea devastazione, morte, desertificazione. Perché allora non ci fermiamo? Perché non abbracciamo in massa uno stile di vita improntato alla parsimonia, all'austerità, alla riduzione dell'impatto ambientale? Perché si susseguono conferenze, dibattiti,pubblicazioni, summit internazionali sul clima, l'ambiente, la salute che lanciano messaggi d'allarme drammatici che, inesorabilmente, poi cadono nell'assoluta indifferenza quotidiana?

Più che una specie distruttiva siamo una specie distratta. Non riusciamo a credere di avvicinarci nell'abisso finché non ci siamo caduti dentro. Sembra quasi che nessuno creda alla presenza dell'ambiente finché l'ambiente non diventa ostile e causa terrore e distruzione. Credo non sia facile dare una risposta a questi interrogativi.

Le tre ecologie

Per questo motivo credo possa essere utile rileggere (la prima edizione francesce è del 1989) il saggio di Felix Guattari, Le tre ecologie, Sonda, Milano 2019. Non si tratta solo di una ristampa. Il volume affianca alla riflessione di Guattari anche quelle di Franco La Cecla, Jan Baudrillard, Paolo Fabbri e Wolfgang Sachs, che contribuiscono a rendere più profonda la riflessione sullo stato attuale della questione ecologica.

Scrive nell'introduzione Guattari: "La crisi ecologica rinvia a una crisi più generale del sociale e del politico. Di fatto, ciò che viene messo in discussione è una sorta di rivoluzione delle mentalità che oggi si fanno garanti di un certo tipo di sviluppo, di un produttivismo che ha perduto ogni finalità, a parte quella del profitto e del potere, di un ideale di consumo che confina con l’infantilismo. […] Fino a oggi, le relazioni politiche nazionali e internazionali sono state caratterizzate da lotte di interesse, da rapporti di casta, di classe, di razza. La sfida ecologica reclama un rovesciamento di questo sistema di valori: un’ecosofia che sostituisca i vecchi antagonismi che conducono il pianeta umano dritto dritto verso la sua scomparsa. Non si tratta più soltanto di affermare dei diritti democratici, dei diritti formali dell’uomo e della donna, ma è altresì necessario che, in ogni decisione che riguardi la comunità, si tenga conto dell’essere dell’altro, con la sua differenza, libertà e apertura a possibiliinfiniti. Essere responsabile della responsabilità dell’altro, per riprendere una formula di Emmanuel Lévinas, non significa per nulla abbandonarsi alle illusioni idealistiche. Le lotte di classe, l’alienazione sessuale, lo sfruttamento del Terzo Mondo permangono e i partiti, i sindacati, le associazioni hanno una funzione da svolgere. Però è necessario qualcosa di più: un reinquadramento delle finalità, un’assunzione dell’esistenza nella sua compiutezza – la vita, la morte, con tutta la loro stranezza – associati alla ridefinizione di nuove solidarietà internazionali e alla promozione del desiderio di vivere, di creare in quanto parametro economico e sociale primordiale. L’umanità ha dei conti da saldare sia a proprio nome ma anche a nome del cosmo. Non è un’accozzagliadi molecole sperdute in un angolo dell’universo, ma è portatrice di un senso che va ben al di là dei discorsi politici distillati dai media attuali. Questa umanità regressiva, fredda, che non vuol sapere nulla di ciò che la ostacola e che ignora ciò che laminaccia, è il risultato di un’autentica polluzione mentale. Lungi dal ripiegarsi sulla natura come si immaginava ieri, spetta all’ecologia reinventare nuove maniere di stare nel mondo e nuove forme di socialità. L’ecologia sarà in primo luogo mentale e sociale o non sarà nulla, o comunque poco" (pp. 7-10).



Stentiamo a riconoscere che il funzionamento degli ecosistemi naturali è esemplare: le piante sintetizzano sostanze nutritive che alimentano gli erbivori; questi a loro volta alimentano i carnivori, che forniscono importanti quantità di rifiuti organici, i quali danno luogo a una nuova generazione di vegetali. Al contrario, il sistema industriale, alla fine del ciclo di produzione e di consumo, non ha sviluppato la capacità di assorbire eriutilizzare rifiuti e scorie. Non si è ancora riusciti ad adottare un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo,massimizzare l’efficienza dello sfruttamento, riutilizzare e riciclare. Affrontare tale questione sarebbe un modo di contrastare la cultura dello scarto che finisce per danneggiare il pianeta intero, ma osserviamo che i progressi in questa direzione sono ancora molto scarsi

Papa Francesco

Guattari parte da un analisi dell'intimità tradita delle persone che sempre più sono immerse in un contesto sociale fatto di rapporti "freddi" e deteriorati e invoca la necessità di una ecosofia tra i tre registri ecologici (ambientale, sociale, soggettivo) che possa innescare nuovi processi di "singolarizzazione". Se questo processo non si innesca presto e bene i pericoli sono: "quelli del razzismo, del fanatismo religioso, degli scismi nazionali che precipitano in chiusure reazionarie, quelli dello sfruttamento del lavoro dei bambini, dell’oppressione delle donne" (p. 22).

Purtroppo, pare che questa ecosofiasia molto lontana dalle pratiche politiche quotidiane e che siamo proprio dentro i pericoli che Guattari ipotizzava scaturirsi da una mancata realizzazione di questa forma di saggezza. Pericoli derivati da unevoluzione del capitalismo che si è" de – localizzato, deterritorializzato – sia estendendosi, ampliando la sua influenza sull’insieme della vita sociale, economica e culturale del pianeta, sia in «intensificandosi», infiltrandosi dentro gli strati soggettivipiù inconsci – e quindi non è più possibile pretendere di opporvisi soltanto dall’esterno, attraverso le pratiche sindacali e politiche tradizionali. È diventato altrettanto imperativo affrontarne gli effetti sul piano dell’ecologia mentale nell’ambito della vita quotidiana individuale, domestica, coniugale, di vicinato, della creatività e dell’etica personale. Anziché un consenso che istupidisca e infantilizzi, in futuro dovremo coltivare il dissenso e la produzione singolare di esistenza" (pp. 38-39).

Occorre dunque, lavorare sul proprio desiderio di soggettività, di unicità, di personalità singola e singolare: "essenziale che si organizzino nuove pratiche micropolitiche e microsociali, nuove solidarietà, una nuova dolcezza unitamente a nuove pratiche estetiche e a nuove pratiche analitiche delle forme dell’inconscio: mi sembra che sia l’unica via possibile affinché le pratiche sociali e politiche si rimettano sui loro piedi, cioè lavorino per l’umanità e non per un semplice riequilibrio permanente dell’universodelle semiotiche capitalistiche" (p. 41).

Riscoprire un desiderio che non sia unicamente quello di consumare, di apparire, di arrampicarsi sugli specchi della società dello spettacolo. Per Guattari: "È utile far convivere la singolarità, l’eccezione, la rarità con un ordine statuale il meno pesantepossibile […] Emergeranno nuove «borse» di valore, nuove deliberazioni collettive che offriranno possibilità alle iniziative più individuali, più singolari, più foriere di dissenso e che si appoggeranno soprattutto a mezzi di concertazione telematici e informatici. La nozione di interesse collettivo dovrebbe venir allargata ad attività che, a breve termine, non «danno profitto» a nessuno, ma che, a lungo termine, sono portatrici di un arricchimento processuale per l’insieme dell’umanità. Ciò che qui è in discussione è l’insieme del futuro della ricerca fondamentale e dell’arte. […] In futuro, il problema non sarà più soltanto quello di una difesa della natura, bensì quello di un’offensiva per risanare il polmone amazzonico, per far rifiorire il Sahara.La creazione di nuove specie viventi, vegetali e animali, si affaccia ineluttabilmente al nostro orizzonte e rende urgente non solo l’adozione di un’etica ecosofica adattata a questa situazione terrificante e insieme affascinate, ma anche una politica focalizzata sul destino dell’umanità. […] Così è tutta una catalisi della ripresa di fiducia dell’umanità in sé stessa che va costruita, passo a passo, e talvolta partendo dai mezzi più esigui" (pp. 41-62).

La nuova ecologia è dunque il tentativo di arginare il grigiore e la passività diffusa, produzione di soggettività gioiosa dove regnano la massificazione e lo spreco.

La natura come alterità

Ha fatto bene Franco La Cecla a metterci in guardia da una certa ecologia superficiale che crede che basti "mostrare la natura" per essere dalla sua parte. Non basta una campagna di "sensibilizzazione" condotta con i potenti mezzi tecnologici per avvicinarci all'alterità dell'ambiente in cui sembriamo muoverci come degli estranei.

Scrive La Cecla che "se c’è qualcosa di nuovo nell’emergere dell’ecologia, sta proprio nella percezione, per la prima volta dopo secoli, dell’autonomia della natura, dell’inalienabilità e fragilità delle ragioni della vita; in quel «qualcosa» non artificiale o artificiabile a costo, appunto, della vita. Abbiamo scoperto – che cosa terribile! – che esiste la «realtà» o meglio l’ombra che dal futuro essa proietta su di noi, quella che ci impedisce di inventare tutto noi, e abbiamo scoperto, guarda un po’, di essere anche noi della stessa pasta di questa «realtà», cioè di non poterci nemmeno noi inventare, artificiare del tutto" (p. 97). Abbiamo scoperto che siamo in continuo debito nei confronti di un ambiente di cui siamo dipendenti e senza il quale non riusciamo a "fabbricarci da soli". Questa consapevolezza non si trasforma però in pratiche virtuose e rispettose.

Scrive bene Jean Baudrillard: "Oggi viviamo verso quell’insieme di cose fisiche e metafisiche chiamate natura, con cattiva coscienza e nostalgia. Vogliamo restituire, in una sorta di demagogia naturalista, tutto alla natura. Vogliamo riportarla alla suaorigine benché essa non abbia origine e benché essa sia perfettamente indifferente ai nostri concetti di origine e di finalità. Vogliamo restituire alla natura un’innocenza o una autenticità o una qualità fisica di cui essa non si è mai preoccupata" (p. 103). Come portatori di cattiva coscienza vorremmo con un unico gesto rimettere tutto a posto ma questo "nuovo patto" è impossibile: " è completamente illusorio ipotizzare un rapporto di comunicazione conviviale con la natura, capace di eliminare il male, cioè l’alterità radicale per trovare una specie di convivialità e di consenso ideale. È un’illusione totale voler ridurre la natura in quanto alterità radicale e volerla introdurre in una interlocuzione. E se noi ci ostiniamo in questa volontà consensuale, la natura stessa saprà rispondere attraverso forme di ritorsione. È un’illusione totale volersi riconciliare con la natura. In un modo o nell’altro, essa fa parte del nostro destino, e non ci si riconcilia con il proprio destino, è una cosa senza senso" (p. 114).

Se, dunque, riconciliarsi con la natura è impossibile in quanto alterità totale, dobbiamo stare anche attenti a non far diventare l'ecologia un discorso persuasivo che crea consenso solo durante le campagne elettorali e poi scompare nella prassi del potere reale. Scrive Wolfgang Sachs sull'ambiguità dell'ecologia oggi: "Da un lato esso ha rovesciato alcuni assiomi profondamente radicati nell’era industriale, ha aperto situazioni conflittuali fino a quel momento impensate e prodotto nuove forme di sensibilità. D’altra parte, anche gli attuali poteri puntano sulla mobilità e sulle riforme: l’industria scorge nella coscienza ambientalista una diversificazione della domanda, la politica trova nuovi ambiti di intervento, mentre la scienza traduce l’ansia derivata dalla situazione di crisi in necessità di ricerca e finanziamenti. Il significato del termine ecologia sta lentamente assumendo una nuova connotazione; parole d’ordine che un tempo venivano agitate dalla base in segno di protesta contro un’élite si abbattono sempre più spesso dall’alto sopra le teste dei cittadini. L’ecologia si trova oggi (in parte, naturalmente) nella fasi di passaggio da disciplina dell’opposizione a disciplina della classe dominante" (p. 125)

Oltre i limiti dello sviluppo

Noi umani rischiamo sempre di decidere quando è il momento di occuparci di qualcosa e di dimenticarne un altra. Ci arroghiamo il diritto di sapere quando è il momento giusto per fare o non fare. Così, superati "i limiti dello sviluppo", abbiamo cominciato a domandarci fino a che punto il sistema reggerà il nostro impatto. Fino a quando resisterà un mondo così violento e assurdo.

Non riusciamo, tuttavia, ad accettare di non essere i soli protagonisti del Pianeta che abitiamo.

Tutto deve passare dal nostro Io, dalla nostra "individualità". Credo, allora, che un contributo alla nuova ecologia possa passare da pratiche di distacco dall'Io, da percezioni non egoiche, da visioni del mondo non centrate sul mio desiderio. Forse occorrerebbemoltiplicare il gesto liberatorio di Siddhārtha Gautama. Sedersi sotto un grande albero, meditare profondamente, prendere coscienza del proprio respiro. Abbandonare ogni idea di un sé auto-riferito. Trovare un nuovo centro.

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