Famiglia

La guerra non è un galà

Lo scopo della battaglia è la strage, i suoi strumenti sono l'inganno il tradimento e la crudeltà. Non c'è spazio per il bene e la pietà.

di Enzo Fontana

“L a violenza è la levatrice della storia”, sosteneva Karl Marx. Non si tratta di un’idea originale, se già per il filosofo greco Eraclito la guerra era madre e regina di tutte le cose, Per non evocare lo spirito dì Hegel, il grande pensatore, che dell’idea di pace universale non aveva una grande opinione com’è dimostrato dalla seguente similitudine: «come il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione nella quale lo ridurrebbe una quiete durevole, così vi ridurrebbe i popoli una pace durevole o anzi perpetua». Non c’è pace perenne che tenga, nella storia, dal momento che la sua levatrice dev’essere imparentata con la morte. Si illude chi pensa che la violenza non paghi mai e che sia soltanto una levatrice di aborti. Ciò sarà vero, e speriamo che lo sia, nel Regno dei cieli, ma a questo mondo la violenza non paga solo quando chi la esercita perde. E questo vale per i singoli, com’è verificabile dall’esperienza di ciascuno, vale per i popoli, che nella storia ciclicamente calano sulle terre degli altri come cavallette, e vale per gli imperi. Quale stato antico, moderno o contemporaneo, quale nazione è mai nata senza un travaglio violento? Cosa avrebbe potuto cantare Omero, se gli achei e i troiani non si fossero ammazzati e se Troia non fosse stata presa con l’inganno e la violenza? Come si potrebbe insegnare la civiltà romana, se, tanto per fare un esempio, Giulio Cesare non avesse scritto il suo De bello gallico col sangue di un milione di esseri umani? E come potremmo leggere Guerra e pace, se Tolstoj non avesse preso materia e ispirazione dall’invasione napoleonica della Russia? Le pagine che seguono (Libro terzo, capitolo XXV) sono tratte proprio da questa sorta di Iliade dell’evo moderno. Siamo alla vigilia della battaglia di Borodino tra le armate napoleoniche e l’esercito russo. Tra due dei principali personaggi del grande romanzo, il conte Pierre Bezùchov e il principe Andréi Bolkònski, si svolge una conversazione verso la fine della quale quest’ultimo, forse presagendo che l’indomani sarà ferito a morte, fa un’amara confessione attorno a ciò che ha capito della guerra, della casta militare e soprattutto della condizione umana. Enzo Fontana, uno scrittore “tra la perduta gente” Nato a Milano nel 1952, Enzo Fontana ha pubblicato per Spirali il romanzo “Il fiore di Mnemosine” (1989). Da Guaraldi il dramma “Labyrintos” (1993) e, tre anni dopo, l’antologia “Mia linfa, mio fuoco”. Sempre nel 1996, per i tipi di Mondadori, è uscito il suo romanzo “Tra la perduta gente”, accolto con favore dalla critica italiana e estera. Lo scorso anno, sempre con Mondadori, un altro romanzo: “Il Fuoco Nuovo”. Quest’anno Enzo Fontana ha scritto “L’ultimo viaggio di Ulisse”, un breve romanzo di prossima uscita da Laterza. Lev Tolstoj – Ma non faremo prigionieri… Sicché voi pensate che la battaglia di domani sarà vinta? disse Pierre. Sì, sì, – disse distrattamente il principe Andréj. – Una cosa sola farei se ne avessi il potere, – cominciò a dire di nuovo. Non prenderei prigionieri. Perché prendere prigionieri? Questa è cavalleria. I francesi hanno distrutto la mia casa e andranno a distruggere Mosca; mi hanno offeso e mi offendono ogni momento. Sono miei nemici, son tutti malfattori, a mio giudizio. E così pensa Timochin e tutto l’esercito. Bisogna punirli. Se sono miei nemici, non possono essere amici, qualunque cosa si dicesse là a Tilsit. – Sì, sì, – disse Pierre guardando il principe Andréj con occhi scintillanti, – io sono pienamente, pienamente d’accordo con voi! Quella questione che sull’altura di Mozàjsk e per tutto quel giorno aveva agitato Pierre, ora gli appariva perfettamente chiara e pienamente risolta. Ora aveva capito il significato e il valore di quella guerra e della battaglia imminente. Tutto ciò che aveva veduto in quel giorno, tutte le significative e severe espressioni dei visi che aveva veduto di sfuggita s’illuminarono per lui di nuova luce. Capì tutto il calore latente, come si dice in fisica, del patriottismo che c’era in tutte quelle persone da lui vedute e che gli spiegava perché tutte quelle persone si preparassero tranquillamente e quasi spensieratamente alla morte.- Non prendere prigionieri, – seguitò il principe Andréj. – Soltanto questo cambierebbe tutta la guerra e la renderebbe meno crudele. E noi invece abbiamo giocato alla guerra, ecco il male; noi facciamo i magnanimi, e così via. Questa magnanimità e questa sensibilità sono del genere della magnanimità e della sensibilità di una signora a cui viene male se vede uccidere un vitello; è così buona che non può vedere il sangue, ma poi mangia con appetito di quel vitello con la salsa. Ci vengono a discorrere dei diritti della guerra, della cavalleria, del parlamentarismo, dei riguardi da usare agli infelici, ecc. Tutte sciocchezze. Ho visto nel 1805 la cavalleria e il parlamentarismo: ci hanno ingannati e abbiamo ingannato. Saccheggiano le case altrui, mettono in giro assegnati falsi e, peggio di tutto, mi uccidono i figli, il padre e parlano delle regole della guerra e della magnanimità verso i nemici! Non prendere prigionieri, ma uccidere e farsi uccidere! Chi è arrivato a questo, come me, attraverso le stesse sofferenze… Il principe Andréj, che aveva pensato che gli fosse indifferente che prendessero o no Mosca come avevano preso Smolènsk, improvvisamente si fermò nel suo dire per uno spasimo inatteso che l’aveva afferrato alla gola. Fece qualche passo in silenzio; ma i suoi occhi splendevano febbrilmente e il suo labbro tremava quando riprese a dire: – Se in guerra non ci fosse questa magnanimità, noi marceremmo solo quando valesse la pena di andare verso una morte certa, come ora. Allora non ci sarebbe una guerra perché Pàvel Ivànyc ha offeso Michail Ivànyc. E se c’è la guerra, come ora, che sia guerra! E allora il rendimento degli eserciti non sarebbe quello che è ora. Allora tutti questi westfaliani e assiani che si conduce dietro Napoleone non l’avrebbero seguito in Russia, e noi non saremmo andati a batterci in Austria o in Prussia, senza sapere noi stessi perché. La guerra non è un’amabilità, ma la cosa più brutta della vita; e bisogna capirlo, e non giocare alla guerra. Bisogna accettare austeramente e seriamente questa terribile necessità. Tutto sta in questo: spogliarsi della menzogna; e che la guerra sia la guerra, e non uno scherzo. Se no la guerra è il passatempo favorito degli uomini oziosi e leggeri… La condizione del militare è la più onorata. E che cos’è la guerra, che cosa ci vuole per ottenere il successo nell’arte militare, quali sono i costumi dell’ambiente militare? Lo scopo della guerra è la strage; strumenti della guerra sono lo spionaggio, il tradimento e l’istigazione a tradire, la spoliazione degli abitanti, il saccheggio e il furto per approvvigionare l’esercito, l’inganno e la menzogna, detti astuzie di guerra; i costumi della classe militare sono l’assenza di libertà, cioè la disciplina, l’ozio, l’ignoranza, la crudeltà, la depravazione, l’ubriachezza. E malgrado ciò, è la classe più elevata, e rispettata da tutti. Tutti i sovrani, tranne l’imperatore della Cina, portano la divisa militare, e a chi ha ucciso più gente danno le maggiori ricompense… S’incontrano, come faranno domani, per uccidersi l’un l’altro, massacrano, stroppiano diecine di migliaia di uomini, e poi faranno preghiere di ringraziamento per aver ucciso molte persone (e se ne esagererà ancora il numero) e proclameranno la vittoria, supponendo che, quanta più gente sarà stata ammazzata, tanto maggiore sarà il merito. Come Dio di lassù può vedere e udire questo! – gridò il principe Andréj con voce acuta e stridula. – Ah, anima mia, in questi ultimi tempi mi è diventato penoso vivere! Vedo che comincio a capir troppo. E non conviene all’uomo assaporare i frutti dell’albero della scienza del bene e del male!… Be’, ma non sarà per molto tempo!.. Lev Tolstoj, Guerra e Pace, Libro III, capitolo XXV


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