Economia
L’economia? Soffre per mancanza di pensiero
La grande impresa, la finanza, il liberismo, l’interesse individuale costituiscono i segni distintivi del capitalismo di derivazione protestante. La cooperazione, i distretti, il welfare, il mutualismo sono invece i tratti del capitalismo "latino". Luigino Bruni ricostruisce la genesi culturale e teologica di questi due paradigmi economici, descrivendone lo sviluppo nella storia e la loro importanza per il nostro presente
di Marco Dotti
Bene comune e beni comuni, pubblica felicità ed economia civile. Parole che regolarmente pronunciamo o sentiamo pronunciare ma tardano ad entrare nel dibattito mainstream sullo stato dell'economia nel nostro Paese.
Un libro di Luigino Bruni, La pubblica felicità. Economia politica e Political economy a confronto (euro 15, pagine 192), da poco pubblicato dalla casa editrice Vita e Pensiero, da un lato aiuta a fare chiarezza su quei concetti, dall'altro, collocandoli in prospettiva, consente di rilanciarli non come portato di qualche bizzarra archeologia delle scienze economiche, ma come pensiero vivo, attivo e quanto mai radicato negli assi portanti – culturale, teologico – del "nostro" capitalismo.
Qui si apre un primo fronte critico. Siamo abituati a parlare di capitalismo e mercato, non solo facendoli coincidere, ma declinando il discorso sulla variabile, oggi sicuramente egemone, del capitalismo come finanziario e nordamericano.
La reductio ad unum , spiega Bruni in questo libro importante e illuminante, è antistorica, ma ha un preciso affetto sulla nostra capacità di pensare e organizzare il futuro: azzera infatti ogni alternativa possibile.
La biodiversità economica
Un secondo fronte critico aperto da Bruni è rappresentato dalla perdita dei biodiversità economica. Nella storia d'Europa si sono diramate molteplici linee di sviluppo del capitalismo. Due i ceppi: cattolico e protestante. Bisognerebbe tornare a lungo sulle analisi pionieristiche del giovane Fanfani, che ribaltava l'ipotesi della vulgata weberiana di un capitalismo innestato unicamente su tronco del riformismo protestante. Non è così. Esiste una variante latina, del capitalismo, forte di una lunghissima tradizione oggi oscurata e in sofferenza.
Sono esistiti, insomma, diversi approcci al mercato, alla felicità pubblica e privata. Ma il lessico dell'economia sembra orama prescindere dalle sfumature attestandosi unicamente sulle parole d'ordine della finanza speculativa. Poiché l'economico è il motore che governa e orienta le nostre vite, anche nei loro aspetti minuti, privare di sfumature quel lessico o ignorare l'importanza dei tragitti storici che si sedimentano attorno alle parole significa non capire nulla di quanto ci sta capitando.
Un terzo fronte critico è quello della teologia economica. Gli economisti, osservava negli anni Trenta Emanuele Sella, allievo di Einaudi, non si interessano di teologia, così come i teologi per molto tempo si sono disinteressati di economia. Eppure il nesso teologia-economia è sempre più evidente. Anche su questo punto il lavoro di Luigino Bruni offre una lezione importante per riconnettere la riflessione su quei due mondi "separati e connessi" che hanno a cuore un'economia delle opere e del bene.
L'economia soffre
L'economia soffre. Ma ancor prima che nei numeri, citando Paolo VI, soffre soprattutto «per mancanza di pensiero».
Questo è un tratto fondamentale della mappa storico-concettuale tracciata da Bruni. Un altro economista, il fiorentino Giacomo Beccattini, osservava che l'economia è soprattutto una faccenda di luoghi concreti del vivere. Non è un'astrazione o il fantasta riprodotto su uno schermo. Non è l'indice di una borsa o il diagramma del PIl. È anche questo, ma non solo questo. Si riducesse a quel diagramma o a quel fantasma, ci sarebbe ben poco da discutere. Il potere dei numeri nel dibattito pubblico, osservava d'altronde lo scrittore Elias Canetti, è talvolta simile alla magia nera: paralizza.
Ma se vogliamo muoverci, nota Bruni, dobbiamo ripartire dai luoghi e ridare al capitalismo il suo spirito. "Economia", ricordiamo, ha in sé il termine greco oikos, "casa". Ma oikos, per estensione, significa anche ambiente. Ecco allora che, allargando il campo della riflession nella grande tradizione italiana, che va dal Settecento dell'aquilano Giacinto Dragonetti, di cui sempre Vita e Pensiero ha mandato in libreria il trattatello Delle virtù e de' premi (pp. 388, euro 30) curato da Luca Clerici e con una premessa dello stesso Luigino Bruni, fino alle rivoluzioni del XIX e XX secolo: mutualismo, cooperazione, banche popolari e distretti.
La lunga via dell'economia civile
Oltre il finanzmart-kapitalismus odierno, che vive di crisi e prolifera sulle crisi, c'è quindi una lunga tradizione messa in luce da Luigino Bruni. Questa tradizione, continentale, latina, mostra come un'altra economia è concretamente possibile, riannodandosi alle radici di quella fiducia (fides) che vede nel mercato un luogo di relazione, prima che un campo di scambia astratti. L'idea di fondo dell'economia civile nasce da qui: da un mutualismo originario, dove la felicità pubblica prevale sull'egoismo privato. Il paradigma anglosassone dell'egoismo solidale è completamente rovesciato dalla grande lezione della scuola napoletana di economia civile. Una lezione importante, che dobbiamo recuperare.
L'economia civile, d'altronde, si basa su parole come questa: cooperazione, mutualismo, reciprocità. Ma è un cantiere ancora in costruzione, una storia ancora tutta da scrivere. Per farlo, osserva Bruni, bisogna ripartire dai luoghi concreti del vivere. Non dalle loro astrazioni.
La coscienza di luogo, scriveva d'altronde proprio Beccattini, «è un passaggio intermedio per riacquistare la responsabilità sociale e può riaprire la strada a una visione della società che vada oltre il mercato. Ad esempio verso un’economia cooperativa. La quale si fonda su un concetto limpido: la produzione è un fatto sociale e quindi una manifestazione di cooperazione fra soggetti».
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