Formazione

Arcobaleno in bianco e nero

"L'obiettivo primario di aiuto ai profughi è stato raggiunto" dicono le Ong. Sin dal 2 agosto è stata siglata un'intesa per lo smaltimento dei materiali rimasti.

di Daniela Romanello

Scandalo sì, scandalo no. Con retromarcia di chi aveva gettato il sasso. È questo, in sintesi, il tormentone di fine estate che ha investito la Missione Arcobaleno, ovverosia l’intervento umanitario italiano durante i tre mesi della guerra del Kosovo. Ma vediamo di chiarire alcuni passaggi chiave della vicenda. Marco Nana è il rappresentante della Stea & Stea, la società incaricata, con protocollo del 2 agosto, di effettuare le operazioni di smaltimento dei container. Chiediamo a lui di ricostruire il “caso container”. Il 6 agosto Nana effettua il primo sopralluogo a Bari, da cui emerge già che i container sono 926, di cui 780 al porto, altri 140 presso la caserma Biscese e 6 presso la Sanità Marittima. Il 9 agosto stende la tempistica: massimo entro due mesi tutti i container avranno una destinazione, ovviamente previa verifica del loro contenuto, e con la collaborazione di tre ong, Avsi, Cesvi ed Intersos. Tutto questo prima che la stampa inventasse uno scandalo che non c’è. Ad oggi, racconta il dottor Nana, è stata completata la prima fase del lavoro, quella cioè che ha permesso di identificare il contenuto dei singoli container e di suddividerlo per “gruppi merceologici”. Cosa c’è nei container al porto Così si è scoperto, ad esempio, che sono solo 236 i cassoni che contengono generi alimentari (il 25% del totale), i più a rischio di scadenza. Mentre gli altri (esclusi ovviamente quelli di medicinali, che però non sono ancora stati censiti) contengono merce non deperibile e quindi riutilizzabile. «Mi fanno ridere quei giornalisti che hanno scritto che sentivano la puzza di cibo andato a male», dice Nana. «Io sono qui al porto da una settimana e faccio su e giù come una trottola, ma di puzza non ne ho sentita. Non ci credete? Venite tutti a vedere, qui la porta è aperta per qualsiasi verifica.». Il 31 agosto è scattata la seconda fase: ciascun gruppo merceologico (cibo, vestiti, medicine, oggetti vari) viene ulteriormente diviso in tre mucchi, uno destinato alla distruzione perché ormai inutilizzabile, uno da inviare ai campi profughi italiani (pugliesi in particolare), l’ultimo da mandare nei Balcani, in Kosovo, Albania o Montenegro o Serbia, a seconda delle necessità attuali. «Stiamo lavorando all’italiana, cioè bene», precisa Marco Nana. «Ditelo a quelli di Bild: i loro aiuti io li ho visti, erano un po’ di scatolette di sardine di scadente qualità che non riempivano neanche un container». Generosi, ma troppo spontanei Davanti alla tragedia dei profughi kosovari (in pochissimo tempo: dal 24 marzo al 15 giugno un intero popolo è dapprima fuggito e poi rientrato nel suo Paese, 850 mila persone!), l’Italia si è immediatamente mobilitata con una generosità senza pari e paragoni. «Se non ci fosse stato l’intervento inventato dall’Italia con una sinergia inedita tra Stato e società civile, non si sarebbe riusciti a coprire lo “sbandamento” delle organizzazioni internazionali (Nato, Echo, Unhcr) e la tragedia sarebbe stata veramente immane e sarebbe costata vite umane», spiega Luca Jahier, presidente della Focsiv, la federazione delle ong di ispirazione cristiana. Una dichiarazione che ricorda gli attestati di stima alla Missione Arcobaleno di tutti gli osservatori internazionali indipendenti, da Staffan De Mistura a Muhammad Yunus. «Il problema vero è che non abbiamo strutture deputate a coordinare l’emergenza e la solidarietà, basti pensare che facciamo peace keeping con la Folgore che è addestrata a compiere azioni di commando e non interventi umanitari. La Missione Arcobaleno è stato il primo vero tentativo di raccordare emergenza e solidarietà: i container fermi a Bari sono stati solo il surplus dettato dalla generosità degli italiani, non uno scandalo». «Generosità grandissima che però non è stata indirizzata all’origine», ribadisce Nino Sergi, di Intersos. «Bisogna chiaramente dire che la Missione Arcobaleno non coincide con i container di Bari, quelli sono container in cui è stato stipato tutto quanto è stato raccolto o con i treni della per la vita o spontaneamente da gruppi, parrocchie, scuole. Gli italiani, purtroppo sono ancora restii a dare un contributo in denaro e preferiscono portare il “pacco famiglia” senza comprendere che, a volte, viene a costare di più in movimentazione e stoccaggio, sempre che non vada a male prima. Questa è una lezione da imparare, ma, sinceramente, nell’emergenza si potevano dare queste indicazioni?». D’accordo anche Alberto Piatti dell’Avsi: «I giornali e Tg che hanno pubblicizzato per giorni e giorni i vari Treni per la Vita e che oggi si scandalizzano, avrebbero dovuto seguire le nostre missioni e i nostri invii con l’iniziativa “Pane per i profughi” per capire quanto hanno fatto e dato gli italiani». Non tutto si è fermato a Bari Tutto quanto è transitato, o è fermo, a Bari è di competenza della Protezione civile, mentre i fondi privati raccolti dalla Missione Arcobaleno sono un capitolo a parte. «Tutto quello che le ong hanno fatto autonomamente è arrivato e questo è stato possibile perché ci siamo affidati ai privati», spiega Maurizio Carrara, presidente del Cesvi. «Nulla è andato sprecato proprio perché le ong sono specializzate negli interventi, non fanno appelli generici, sanno cosa chiedere o cosa comprare e sanno dove farli arrivare». Ma sono arrivati anche i container della Protezione civile: «A Lezhe ne abbiamo ricevuti ogni giorno», dice Sergi.«Ma più di tanto non potevano arrivare, la strada era intasata dal traffico, e poi da un giorno all’altro non sono più serviti perché i campi si sono svuotati. Il vero scandalo sarebbe stato se avessero continuato a far partire da Bari i container». E ora proprio da Paolo Farneti della Protezione civile arriva una buona notizia: i 198 container fermi a Bari di cui il Dipartimento conosce perfettamente il contenuto, perché acquistato ex novo e ovviamente non deperibile (contengono coperte, materassi e cuscini; kit monouso per la distribuzione dei pasti; materiale sanitario come siringhe e garze) prenderanno a giorni la via della Turchia, a beneficio delle popolazioni terremotate. Che l’emergenza e la cooperazione siano un affare da specialisti lo stanno ripetendo da tempo molte ong. Tra chi l’ha da sempre sostenuto ci sono Marco Griffini dell’Ai.Bi. e le Misericordie. «Senza l’intervento del volontariato, la gestione dell’emergenza risultava sin dall’inizio macchinosa e burocratica e pertanto ci siamo organizzati autonomamente con nostri magazzini e nostri camion», non mancano di ricordare queste ultime a D’Alema, mentre dall’Ai.Bi. si ribadisce la critica di aver voluto smantellare il tavolo di coordinamento degli organismi operanti in Albania. Ma che la gestione dell’emergenza sia una questione di specialisti, il governo se n’è accorto strada facendo quando già all’inizio dell’estate, prima che lo pseudoscandalo fosse fatto scoppiare, aveva affrontato il problema container fermi a Bari, chiedendo aiuto al Commissario straordinario Marco Vitale e alle ong con cui da qualche mese collabora. In data al 2 agosto scorso, infatti, era stato siglato un protocollo d’intesa tra il Dipartimento della Protezione civile, il Commissario della Missione Arcobaleno e tre ong (Cesvi, Intersos e Avsi). Da Arcobaleno all’Agenzia «Al di là di tutti gli errori che, umanamente, possono essere stati compiuti, una cosa è certa: l’obiettivo primario, dare assistenza ai profughi, è stato raggiunto», conclude Nino Sergi. «E da questa esperienza straordinaria», aggiunge Luca Jahier, «bisogna trarre una lezione: l’Italia deve mettere in piedi una struttura che, valorizzando l’esperienza delle ong e della società civile, sappia condurre la gestione unitaria delle emergenze. Magari proprio valorizzando quanto di buono ha messo in campo la Missione Arcobaleno e correggendo ciò che non ha funzionato». Da parte sua, Marco Vitale sta per mettere in campo un’altra iniziativa rivoluzionaria: un accordo con il professor Muhammad Yunus, il fondatore e direttore della Grameen Bank, oltreché inventore del microcredito. Arcobaleno si impegna a stanziare 6 milioni di dollari (oltre 10 miliardi di lire) per l’avvio di progetti di microcredito in Kosovo: in pratica, i kosovari potranno ricevere piccoli prestiti per rimettere in piedi le loro attività e costruirsi un futuro. Alcuni membri dello staff della Grameen si preparano a partire per i Balcani per seguire il piano, che avrà una durata di tre anni. Dopodiché, se le circostanze saranno tali da richiedere una proroga del progetto, quest’ultimo passerà sotto la supervisione dell’Ig di Carlo Borgomeo, una società che ha accumulato grande esperienza nel campo dei prestiti d’onore: in pratica ciò che di più simile esiste in Italia al microcredito di Yunus.


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