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Case chiuse? In Italia è impossibile riaprirle

Intervista a Marzia Gotti, responsabile della prossimità territoriale di Lule, l’associazione si occupa di lotta al traffico di esseri umani e assistenza alle vittime di tratta, che spiega perché la riapertura delle case chiuse in Italia non è possibile da un punto di vista politico, e soprattutto perché è inutile e priva di significato da un punto di vista umano ed educativo

di Anna Spena

Rimbombano i titoli sulla dichiarazione del ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini “riapriamo le case chiuse”. Le motivazioni che si portano per rimettere l’argomento sul tavolo sono sempre le stesse, risultato di una visione superficiale delle cose: meno criminalità, controllo sanitario, possibilità di azzerare il tasso di sfruttamento, far passare la prostituzione come una scelta consapevole e volontaria da parte di chi decide di vendere il proprio corpo.

Diciamolo: in Italia, in virtù di una convenzione Onu che risale al 1949 è impossibile riaprire le case chiuse. E questa cosa non potrebbe cambiare neanche se si decidesse di abrogare la legge Merlin, quella che nel 1958 abolì la regolamentazione della prostituzione, chiudendo le case di tolleranza e introducendo i reati di sfruttamento, induzione e favoreggiamento della prostituzione.

Abbiamo chiesto a Marzia Gotti, responsabile della prossimità territoriale di Lule, l’associazione che, con più di vent’anni di lavoro alle spalle, rappresenta una dei principali soggetti in nord Italia ad occuparsi di lotta al traffico di esseri umani e assistenza alle vittime di tratta, di spiegarci tecnicamente perché la riapertura delle case chiuse in Italia non è possibile, da un punto di vista politico, e soprattutto perché è inutile e priva di significato da un punto di vista umano ed educativo.

È inutile parlare a vuoto, in Italia le case chiuse non possono essere riaperte
Allo stato dei fatti è impossibile. L’Italia nel 1949 ha firmato una convenzione con le Nazioni Unite a cui aderisce in maniera piena e attiva. Stando alla convenzione deve essere punito qualsiasi soggetto che rapisce, adesca, sfrutta un’altra persona anche se consenziente. L’articolo 2 di questa convenzione, inoltre, sostiene che non si possono gestire case chiuse o bordelli.

Perché non è utile riaprire le case chiuse?
Quello che vediamo dalla nostra esperienza è che il grosso della prostituzione ormai non è più sulla strada. C’è già una parte di prostituzione che si svolge all’interno di strutture chiuse. Il primo esempio sono i centri di massaggi cinese, dove le persone si prostituiscono ma sono assunte con contratto di lavoro di altra natura, come massaggiatrici o operatrici di benessere.

Ma c’è una differenza tra la prostituzione in strada e quella indoor?
La fragilità e la vulnerabilità di queste persone è la stessa. Ed è quella stessa condizione di fragilità che poi le porta a prostituirsi attraverso lo sfruttamento. Io credo che in nessuno dei due casi si possa parlare di una scelta senza condizionamento. Lo stesso vale per quei Paesi dove la prostituzione è legale.

Le organizzazioni
Oggi tutte quelle che gestiscono il giro di prostituzione sono molto grandi e sono legate anche ad altri traffici: come quello di droga o di armi. Quale persona come noi si metterebbe a gestire una casa chiusa? Immagino che a prendere le redini di queste strutture sarebbe comunque un’organizzazione criminale. Non a caso le ragazze che troviamo sulle strade sono le stesse che in altri mesi dell’anno si trovano a prostituirsi nei Paesi dove le case chiuse sono legali. Chi oggi si occupa di sfruttamento è perseguibile penalmente. Avete idea di quello che potrebbe succedere se faccessimo cadere il velo legale?

E sulla questione sanitaria?
Un’altra bugia. Se nell’immaginario comune la prostituta che lavora in strada è più soggetta a malattie e quella che lavora “al chiuso” no, e comunque i clienti chiedono di avere rapporti non protetti, non credo le case chiuse possano essere una discriminante per tutelare la salute delle persone.

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