Mondo

Da Sarajevo a Betlemme. Non euro, ma presenza

La Bosnia dieci anni dopo. Cosa insegna? Aldo Bonomi, sociologo in movimento, racconta le tante affinità tra i due conflitti. E indica una strada da percorrere

di Redazione

Perdere il senso del tragico significa l’incapacità per una società di «ricordare gli avi, riconoscere i contemporanei e parlare con i discendenti». L’Europa, come ebbe a dire un suo presidente di Commissione, il francese Jacques Delors, ha veramente perso il senso del tragico nei 10 anni che segnano il tempo dell’inizio della saga di Sarajevo e del dispiegarsi della tragedia balcanica in cui ogni Nord, dalla Slovenia fino alla Macedonia, ha cercato un suo Sud e i corpi si sono affrontati in una guerra civile molecolare combattuta in nome delle appartenenze primordiali ed elementari del ritorno al sangue delle etnie, al suolo del radicamento territoriale e ai fondamentalismi religiosi.

Se non avesse perso il senso del tragico l’Europa avrebbe ricordato che i suoi avi, per tutto il Novecento si sono combattuti in due apocalittiche guerre mondiali, che sul suo territorio presero corpo campi di concentramento e di sterminio ove una razza rinchiudeva e sterminava un’altra razza. I diktat dell’economia Avrebbe saputo così riconoscere il riapparire del male assoluto delle guerre e dei campi di concentramento che si dispiegava ai suoi confini sud orientali. Avrebbe riconosciuto come contemporanei, suoi contemporanei, gli sloveni, i croati, i serbi, i kosovari, gli albanesi, i macedoni? che solo se riconosciuti e accettati da una identità più alta, sopra il livello del suolo e del territorio, l’identità in formazione di una Europa dei popoli, avrebbero potuto trovare una soluzione altra dal ritorno ai fondamenti. Ma così non è stato.

La comunicazione con i contemporanei da parte dell’Europa in questi 10 anni è stata incentrata solo sul linguaggio dei parametri competitivi dell’economia, i parametri di Maastricht: Pil, debito pubblico, conti pubblici, competitività globale dell’economia, e chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Anzi, così facendo ha costruito fatti dal materiale più leggero e pesante che ci sia: il denaro e la competizione economica, architravi dei tanti muri di Shengen sparsi nel mondo, quelli dell’euro, del dollaro e dello yen.

Europa, cosa conti?
E così siamo qui, incapaci di parole verso i nostri discendenti, incapaci di trasmettere un’idea di Europa che vada oltre il linguaggio del mercato e dell’economia. E ci si interroga se basta, per avere una idea di Europa, partire da una moneta unica, una banca europea, il potere degli Stati nazione in transizione, e il ragionare sull’Europa politica partendo da un esercito o da una forza di pronto intervento, un’Europa per contare di più nello scacchiere geopolitico mondiale che si va determinando dopo l’11 settembre. Nella partecipazione di Romano Prodi al seminario della costruzione dell’Europa dal basso, organizzato dalle organizzazioni non governative presenti nella ex Jugoslavia, e nel suo discorso a Sarajevo di fronte al parlamento bosniaco 10 anni dopo l’assedio della città, vedo una testimonianza politica e personale che vuole andare oltre la perdita del senso del tragico da parte dell’Europa e un riconoscimento che , al di là delle sue impotenze politiche e istituzionali fatte di veti incrociati, l’Europa arriva sin lì e da lì, da questi territori deve ripartire. Oltre a questo mi pare importante interrogarsi sul perché le idealità forti che vanno oltre il mercato economico, che osano parlare di costruzione di Europa dal basso, dell’Europa dei popoli, che una volta erano patrimonio delle élites europee, sono oggi agitate e promosse dalle ong e dalle associazioni che sono cresciute in questi anni mettendosi in mezzo alle guerre civili molecolari come testimoni di pace e come agenzie per la ricostruzione di forme di convivenza e di sviluppo.

I sorvolatori
La risposta è semplice. Le élites economiche, politiche e delle informazioni stanno sui flussi della competizione finanziaria ed economica globale, la politica sorvola i territori più che praticarli, e i flussi informativi fanno da specchio a manager finanzieri e politici, entrambi celebrati nei nostri talk show quotidiani. Sul terreno, sul territorio a occuparsi della lunga vita sofferente restano solo i volontari delle associazioni umanitarie e i militari delle forze di interposizione che fanno presidio di territorio. E allora non deve meravigliare se dalla debole figura del volontario che si è messa in mezzo prima, durante la guerra per portare aiuti ed esortare al ripristino delle forme di convivenza, e poi ha lavorato con coloro che sono rimasti sul terreno per ricostruire e rilanciare forme di economie locali in grado di produrre senso e reddito, in una economia sempre più globalizzata, giunga la proposta eterotopica della costruzione dell’Europa dal basso. Chi è rimasto sul territorio con la nuda vita, chi ha visto ciò che l’Europa politica non ha voluto vedere, sa bene che solo attraverso l’allargamento dell’Europa verso Est e verso i Balcani sarà possibile delineare un altro mondo ove tenere sotto controllo il male assoluto del cercare l’altro da sé in base all’etnia e all’appartenenza religiosa.

Potenza impotente
Da una pratica “primordiale”, prepolitica, oserei dire antropologica, quella del mettersi in mezzo, là dove la comunità diventa una comunità maledetta per il ritorno ai fondamenti, nasce una proposta e un ideale politico da non far cadere: costruire dal basso, dai tanti territori, dalle ricche differenze, l’Europa dei popoli in grado di fare assumere ruolo sociale e culturale a una triste e impotente, nella sua potenza, Europa della moneta e dell’economia. E forse sarebbe il caso, per chi di fronte alla tragedia che sta avvenendo oggi in Palestina e in Israele parla di piano Marshall dell’Europa, ricordare che le logiche economiche, come dimostra la tragedia jugoslava, da sole non bastano. Anche qui occorre, nel momento alto dei conflitti, mettersi in mezzo per poi ricostruire forme di convivenza che sono la base elementare di qualsiasi processo di ricostruzione economica.

Aldo Bonomi


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA