Welfare

Immigrazione: Quando la politica cavalca l’associazionismo

Cento tunisini hanno trovato lavoro in Italia attraverso una scuola di formazione gestita in patria da un'associazione laziale. E Storace ci mette subito il cappello: è il nostro modello.

di Barbara Fabiani

Un successo su tutti i fronti, vero miele per api. Il progetto dell’associazione romana “Amici del Sahara” partita un anno e mezzo fa per “accompagnare all’immigrazione” giovani tunisini, preparandoli in una scuola locale con insegnanti volontari italiani e poi completando la formazione professionale in Italia, si è concluso con risultati eccezionali. Tanto che oggi c’è la rincorsa delle forze politiche a metterci sopra il cappello. Cento ragazzi hanno trovato lavoro nelle industrie siderurgiche del nord est, nella ristorazione e nelle aziende ortofrutticole della campagna laziale, dieci hanno trovato lavoro in Germania. Il progetto (del quale Vita ha parlato dettagliatamente nel numero 2 del 12 gennaio 2001) ha avuto come primo partner il Comune di Roma, nell’assessorato alla politiche sociali guidato da Amedeo Piva, che valutò e sostenne l’avvio del progetto, e prese l’impegno di allestire l’accoglienza in Italia per il periodo in cui i giovani tunisini avrebbero completato qui il corso di studi. Su quest’ultimo punto, ovvero della formazione professionale, si attendeva la decisone della Regione Lazio. Il progetto era talmente bello che fu presentato addirittura due volte. Infatti, ad aprile arrivò anche una convocazione stampa da parte della Regione Lazio (che finanziava i centomila euro per la formazione), in piena campagna elettorale quando il Campidoglio era smobilitato perché il suo primo inquilino si candidava come presidente del consiglio. Adesso che si portano a casa i risultati e il ddl sull’immigrazioe è in discussione in Parlamento, ecco che compaiono i titoli dei giornali nelle cronache romane, “Arriva il modello di Storace all’immigrazione”. In sintesi: Bravi tusinisi, seriamente selezionati, vengono in Italia già pronti per lavorare in fabbrica. Un esempio di cosa sia il nuovo approccio all’immigrazione. E invece è meglio chiarire che le differenze ci sono. Prima di tutto il progetto è nato dalla società civile, e nello specifico da un gruppo di persone riunitosi intorno ad un parrocchia romana che da vent’anni distribuiscono, autofinanziandosi , pasti caldi e vestiario agli immigrati magrebini. In tutti questi anni i volontari dell’associazione, guidata da Monsignor Pietro Sigurani, si sono ripetutamente recati nelle cittadine di Kébili e Douz, ai bordi del Sahara, per conoscere le famiglie delle persone che incontravano in Italia. Il progetto è quindi nato dal desiderio di aiutare questi “amici” nel loro progetto di vita, e non primariamente per procurare manodopera qualificata per l’Italia. E non si tratta, come la presenta l’on. Storace, di una variabile raffinata del principio “Aiutiamoli a casa loro”. Entrando poi nello specifico delle politiche per l’immigrazione, uno strumento fondamentale per la realizzazione di questo progetto è stato il meccanismo dello “sponsor” che ha permesso al Comune di Roma di sponsorizzare (con tremilasettecento euro a testa) i centodieci ragazzi che sono venuti a completare gli studi nella capitale, coprendone le spese del viaggio, del vitto e procurando loro l’alloggio. Il tipo di strumento che la riforma della legge sull’immigrazione vuole depennare, considerandolo uno stratagemma più pericoloso del cavallo di Troia. Monsignor Sigurani, che prima di tutto ha a cuore l’inserimento dei ragazzi e non l‘orientamento politico delle giunte, raccoglie tutti i consensi possibili ma continua a difendere la legge sull’immigrazione e in particolare il meccanismo dello “sponsor”. La storia di come si è arrivata all’attuazione della “scuola di migrazione”, con i suoi guai e le sue belle sorprese, è raccontata nel libro “Buchiamo i gommoni della morte” del giornalista Roberto Logli che ha seguito il progetto nel suo realizzarsi (edizioni Edup, presso librerie Feltrinelli) . Il titolo viene proprio dall’appello di una madre tunisina i cui tre figli erano morti in mare su uno dei gommoni dell’immigrazione clandestina. Adesso il “modello Storace” aspetta un secondo finanziamento, visto l’apprezzamento dimostrato.


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