Mondo
Su Jenin indagherà l’Onu
Dopo la forte resistenza di Israele e usa, trovato un compromesso: sul massacro di Jenin indagherà una commissione d'inchiesta delle NU
Su quanto accaduto a Jenin indagherà una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite. Dopo una lunga trattativa tra i paesi arabi, Israele e gli Stati Uniti – in un primo momento contrari a un’inchiesta sul presunto massacro del campo profughi di Jenin – l’accordo è stato finalmente trovato nella notte. Israele ha assicurato che coopererà con i funzionari dell’Onu, ai quali verrà fornita un’ampia documentazione, anche filmata, della battaglia al campo profughi della città palestinese, ma formula l’auspicio che gli inviati delle Nazioni Unite che verranno scelti nei prossimi giorni dal segretario generale dell’Onu “sappiano superare la tradizionale parzialità a favore dei palestinesi mostrata da passate missioni Onu”. Questo hanno detto alcune fonti governative alla radio israeliana, fonti che non nascondono in alcun modo il fastidio per le dichiarazioni pronunciate ieri dall’inviato dell’Onu Terje Roed-Larsen che – al termine della visita al campo di Jenin – ha affermato che quanto accaduto costituisce “uno dei capitoli più vergognosi della storia d’Israele”. Alcuni esponenti del governo israeliano stanno valutando una risposta alle affermazioni di Larsen ritenute “diffamanti” per lo Stato ebraico e potrebbero chiedere la sua espulsione dal paese come “persona non gradita”.
Ma il compromesso raggiunto ha fortemente depotenziato l’istituenda commissione d’inchiesta su Jenin: i paesi arabi hanno dovuto ritirare la richiesta di un’inchiesta approfondita, nonché della dislocazione di una forza internazionale. Il compromesso ha esautorato di fatto il commissario per i diritti delle Nazioni Unite, Mary Robinson, che ha rinunciato infatti a recarsi sul posto, a causa dell’opposizione israeliana al suo intervento La missione che sarà inviata nella città cisgiordana è stata definita di “fact finding”, di accertamento dei fatti. Inizialmente, il presidente americano George W. Bush avevano minacciato di porre il veto su una risoluzione, di ispirazione araba, che prevedeva un’indagine dell’Onu sui ”massacri” di Jenin. Dopo una telefonata ad Annan del premier israeliano Ariel Sharon, Washington ha presentato una sua proposta più mitigata nei contenuti e nel linguaggio che è stata accettata dal Consiglio di sicurezza, riunito al Palazzo di vetro di NY.
Intanto, l’esercito israeliano ha completato il ritiro dei carri armati dalla città ma la tensione resta altissima, mentre si continua a scavare tra le macerie nella speranza di trovare qualche superstite. Un miracolo che oggi si è ripetuto: un giovane palestinese è stato estratto vivo dalle macerie del campo profughi dove è rimasto sepolto per nove giorni. Lo riferiscono i volontari italiani dell’associazione ‘Papa Giovanni XXIII’ presenti sul posto. Il giovane, Sari Hadri, 19 anni, è stato ritrovato nel rione di Haret Hawashim e trasportato in gravi condizioni all’ospedale di Jenin. Il superstite ha detto ai soccorritori che sotto le macerie sono rimasti tutti i suoi familiari e alcuni potrebbero essere ancora vivi. Finora, sono una cinquantina i cadaveri recuperati e trasferiti presso l’ospedale di zona, mentre sono 76 le persone ricoverate perché ferite. L’esercito israeliano, pur essendosi ritirato, controlla ancora la zona con numerosi posti di blocco e si registrano nuovi episodi di tensione e intolleranza nei confronti dei giornalisti. Alla periferia di Jenin un fotografo palestinese che lavora per l’agenzia Reuters è stato fermato dai militari. Mahfouz Abu Turk, 52 anni, era di ritorno da Jenin assieme a dei colleghi ed è stato arrestato a un posto di blocco. Dopo aver controllato i documenti dei tre giornalisti del gruppo e perquiste le loro borse, i soldati hanno preso Turk da parte e lo hanno messo tra due mezzi blindati, in attesa di sottoporlo ad ulteriori controlli. Un portavoce dell’esercito, raggiunto telefonicamente, ha confermato che “in base ai suoi documenti di indentità (Turk) deve essere controllato. Deve essere arrestato per essere interrogato”. Alcuni giorni fa analoga sorte era capitata a Nablus a un fotografo palestinese dell’Associated press, poi rilasciato. In quell’occasione, il fermo era costato la vita al figlio del reporter, un bimbo di appena cinque giorni, morto perché i militari non hanno acconsentito di portarlo subito all’ospedale di Nablus.
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