Famiglia

Le tribù dei bambini nel Ruanda senza padri

Oggi sono almeno 300 mila: un popolo di ragazzini ai margini di un mondo dove gli adulti non ci sono più. Si accampano nelle strade, si organizzano in famiglie, fanno da genitori ai più piccoli. Ec

di Carlotta Jesi

«La guerra è finita». Ma quando, il 18 luglio del 1994, dopo quattro mesi di massacri a colpi di fucile e di macete il Fronte Patriottico del Ruanda annuncia al mondo di aver cessato le ostilità contro il popolo hutu, per Alphonsina, Kubusiama, Maboutu e migliaia di bambini come loro è troppo tardi. Troppo tardi per cancellare dalla mente e dal cuore le brutali esecuzioni cui hanno assistito e sono scampati nascosti in un campo di pannocchie o sui rami di un albero. Troppo tardi per riunirsi ai genitori che, se sono sopravvissuti alle pallottole e al colera di quest?estate africana, sono da qualche parte in Tanzania o Zaire. Troppo tardi perché le interminabili discussioni nel lontano palazzo di vetro delle Nazioni Unite e i processi contro i responsabili del genocidio possano in qualche modo aiutarli a ricominciare. Che ne è di loro a cinque anni dalla fine della guerra tra hutu e tutsi? Sono tutti morti? No. L?ultima generazione del Ruanda si è salvata, anche se oggi vive al margine della società e si vede negata i diritti fondamentali riconosciuti agli adulti. Ma come sono riusciti a sopravvivere migliaia di bambini orfani? Facendo i genitori di se stessi e organizzandosi in nuovi tipi di famiglie e società dove gli adulti non ci sono più. La famiglia di Alphonsina Proprio come ha fatto Alphonsina Mukeshima. Quando un soldato della milizia hutu è entrato nella sua casa vicino a Kigali facendo a pezzi il padre davanti ai suoi occhi aveva dieci anni, una mamma malata morta pochi mesi dopo e cinque fratelli più piccoli con cui da allora si è inventata una ?famiglia autogestita?. O, meglio, una squadra di sopravvivenza che sul terreno lasciato da un vecchio zio tira avanti alla giornata: raccogliendo mais e con la carbonella recuperata dal fuoco dei vicini che rivenduta in città fa guadagnare circa cinque mila lire alla settimana. «I vicini di casa dei Mukeshima hanno più volte cercato di cacciare e spaventare questa tribù di ragazzini», racconta Padraig Quigley, uno dei volontari dell?organizzazione non governativa Trocaire che in Ruanda si occupa di formare operatore sociali in grado di aiutare i 300 mila minori che a quasi cinque anni dalla fine della guerra vivono per strada o in case fatiscenti gestite da loro stessi, «ma loro non mollano. E così pure tutte le altre schiere di bambini rimasti orfani che per sopravvivere si sono organizzati in diversi tipi di famiglie. «Ci sono quelle di fratelli e sorelle», spiega Quigley, «ma anche di bambini incontratisi per strada che in comune hanno solo tanta paura, fame e voglia di sopravvivere». Hutu e tutsi che vivono insieme, in genere capeggiati da giovani ragazze che come Alphonsina si sono assunte la responsabilità di bambini fra i tre e i cinque anni consapevoli che in Ruanda dopo il ?94 niente è più lo stesso. Consapevoli che anche la struttura della famiglia è cambiata. «Il vero problema per questi bambini è che le comunità in cui vivono non sono assolutamente in grado di aiutarli», spiega Lizanne McBride. Che, come direttrice dei programmi di aiuto della Croce Rossa, da quattro anni si occupa dei piccoli sopravvissuti alla guerra. E la vera sfida, dice, va ben al di là del vestirli e nutrirli: «Dobbiamo fare in modo che, insieme agli adulti che li circondano, ai loro vicini di casa, imparino a sviluppare soluzioni a lungo termine e non solo a cercare di sopravvivere ora dopo ora. Il punto, insomma, non è più solo assisterli ma coinvolgerli attivamente nella programmazione e riorganizzazione della loro vita». E le emergenze non finiscono qui: bisogna trovare con urgenza una famiglia a quelli che ancora vivono in orfanotrofio o nei campi per rifugiati. Le cifre della grande tragedia Secondo l?Unicef, erano quasi 500 mila, alla fine del 1998, i bambini ancora ?parcheggiati? nei campi profughi e negli orfanotrofi istituiti dalle organizzazioni umanitarie e dal governo ruandese dopo i massacri. «Mentre, a cinque anni dalla guerra, la maggior parte degli adulti è tornata nei propri villaggi, sono tantissimi i bambini senza più parenti e famiglie a cui essere ricongiunti», spiega Lizanne. Che fin dal 1994 si è occupata di riunire i minori della prefettura di Kibungo con le loro famiglie e, nel 1995, ha ?spostato? i bambini rimasti nell?orfanotrofio Fred Rwinga a Rwamegana. Uno dei maggiori centri di accoglienza del Paese per dove, durante il rimpatrio di massa dei rifugiati del 1996, sono passati circa novecento bambini. «A oggi ne rimangono ancora trenta da ?sistemare? prima che il Rwinga chiuda le porte entro la fine del 1999», dice preoccupata Lizanne. Ma come faranno famiglie già poverissime ad accogliere altri bambini? Come faranno a dare un tetto ai 4.500 minori ancora in istituto e a quelli che, dopo la guerra civile, sono finiti in prigione? Nonostante la legge penale ruandese stabilisca che per essere ritenuti colpevoli di un crimine bisogna avere almeno 14 anni, i penitenziari del Paese e soprattutto della capitale, Kigali, sono pieni di bambini anche più piccoli. ?Delinquenti? che senza più una casa dove vivere hanno rubato qualcosa a qualcuno o anche ?assassini? come Kubusima. Kubusima, killer per forza Dei suoi dieci anni di vita, gli ultimi quattro li ha passati nel riformatorio di Gitagata. Colpevole, come molti altri ragazzi della sua età, di aver ucciso un bambino di 10 anni quando ne aveva appena sei, quando un gruppo di soldati fece irruzione in casa sua ordinandogli di sparare al ragazzo impaurito che tenevano prigioniero. Oggi le autorità di Gitagata sarebbero disposte a lasciarlo andare dal centro di rieducazione, ma non possono farlo prima che la famiglia del ragazzo ucciso assicuri di non vendicarsi e quella di Hubusima accetti di accoglierlo in casa. Il motivo? Tutti temono che, uscito dal carcere, Hubusima vada ad aggiungersi ai 6000 ragazzini che vivono per le strade ruandesi e ai margini del mondo degli adulti hanno costruito nuove tipologie di società. «Chiuse e veramente difficili da avvicinare», spiega la fotografa Vanessa Vick che con i ragazzi di strada di Kigali ha trascorso intere giornate. E, soprattutto dei più piccoli, dice: «sono gli esseri umani più chiusi e rassegnati che abbia mai incontrato in vita mia, e con una vita davvero complicata. Sono riuscita a farmi accettare solo dopo aver offerto loro panini e moltissime bibite». Il re della discarica di Kigali Le loro giornate iniziano e finiscono nell?immondezzaio di Kigali, dove un ragazzo appena più grande degli altri eletto dai bambini regola le ?attività commerciali? di questa città dentro la città: senza il suo permesso nessun bambino può mettersi a raccogliere carta, plastica e vetro dalle strade, senza il suo permesso nessuno può guadagnare, mangiare e, dunque, sopravvivere. Nel dicembre dello scorso anno il governo di Kigali, molto preoccupato dalla crescita del numero di bambini finiti per strada, ha cercato di arginare il fenomeno ordinando all?esercito di trasformarsi in ?accalappiabambini?. «Per alcune settimane», denunciano le organizzazioni umanitarie di mezzo mondo, «le strade della capitale sono state passate al setaccio e, contro la loro volontà, tutti i bambini non accompagnati sono stati portati al Children Solidarity Camp di Ginkongoro. Ma il risultato non è stato dei migliori». Nonostante il Campo sia molto lontano dalla città, moltissimi bambini sono scappati via e tornati ad affollare le strade della capitale. Dove c?è il loro misero regno, signori di un mondo senza più adulti.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA