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Rifugiati e migranti economici, integrazione unica strada possibile
«Oggi l'Europa è sull'orlo di una crisi umanitaria che essa stessa ha creato e senza interventi immediati e trasparenti per far sì che i profughi possano essere integrati nel mondo del lavoro i populismi sono destinati ad avanzare ancora», ha sottolineato Christian Dustmann, professore di economia alla University College London al Festival dell’Economia di Trento
Degli impatti economici delle migrazioni si discute ormai con una certa frequenza con l’obiettivo di smontare le paure e i luoghi comuni. Una cosa è certa: Chi arriva via mare o via terra in Europa, siano essi immigrati o rifugiati, non “ruba” il posto di lavoro ai lavoratori dei Paesi che li ospitano.
Nel corso dell’incontro, dal titolo Gli aspetti economici e politici della migrazione dei profughi, al Festival dell’Economia di Trento, Christian Dustmann, professore di economia allo Università College di Londra, ha riportato i risultati di un suo studio del 2014 in cui dimostra che gli immigrati arrivati nel Regno Unito fra il 2000 e il 2011 hanno versato 22 miliardi di sterline in più di ciò che hanno ricevuto sotto forma di benefici sociali e sussidi. Oggi l'Europa è sull'orlo di una crisi umanitaria che essa stessa ha creato e senza interventi immediati e trasparenti per far sì che i profughi possano essere integrati nel mondo del lavoro i populismi sono destinati ad avanzare ancora. Secondo il presidente degli economisti europei del lavoro, questa crisi non è il risultato della mancanza di risorse, ma di mancanza di volontà politica.
In Europa il primo Paese per numero di rifugiati è la Germania (200.000) seguita da Francia (138.000), Regno Unito (126.000) e Svezia (114.000). Nel 2015 sono arrivate in Italia 153mila persone, poco più di un milione in Europa. Quest'anno, ad oggi, siamo più o meno sugli stessi livelli, sia attraverso il Mediterraneo sia lungo la rotta balcanica, anche se quest'ultima è stata in parte bloccata in seguito all'accordo siglato dall'Unione europea con la Turchia.
In questo quadro, è assurdo pensare di affrontare il fenomeno dei migranti economici e dei rifugiati come un problema di ordine pubblico. Ne sono convinti Carlotta Sami, portavoce dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati nell'Europa meridionale, e Federico Soda, direttore dell'ufficio per il Mediterraneo dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, che al Festival di Trento hanno messo a confronto le esperienze di due grandi organizzazioni internazionali.
«L'Africa raddoppierà la popolazione nei prossimi trent'anni – ha spiegato Soda – e tutta la manodopera che si riverserà sul mercato del lavoro non sarà mai assorbita dalla crescita economica, anche se dovesse seguire il modello cinese. Al tempo stesso, in Europa si registra un consistente calo demografico e una notevole contrazione della forza lavoro. Una situazione – continua Soda – che rischia di avere un impatto negativo sui sistemi pensionistici dei paesi europei. Eppure i flussi migratori che interessano l'Europa non sono quelli di un'invasione. Gli spostamenti di forza lavoro che si registrano all'interno dell'Africa, verso alcuni poli di attrazioni come il Sud Africa o il Nord Africa, sono molto più imponenti. Che i leader europei si spaventino per circa un milione di persone, pari allo 0,2 della sua popolazione totale, che arriva in Europa in cerca di lavoro è abbastanza imbarazzante», ha detto il direttore dell’OIM.
Sono circa 2mila le persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo fino ad oggi dall'inizio dell'anno, nonostante una forte presenza lungo le rotte di operazioni di soccorso e anche di navi commerciali. Qual è allora la risposta? Una delle prime cose da fare è aprire canali di emigrazione legali sia per i migranti economici che per i richiedenti asilo. I corridoi umanitari non solo sottraggano le persone ai trafficanti di esseri umani ma rappresentano un’alternativa ai famosi barconi. Mentre con i re-insediamenti i paesi europei Ue vanno a prendersi i rifugiati che non possono trovare adeguata protezione nel paese nel quale sono fuggiti e li trasferisce in un paese terzo dove possano rimanere in modo permanente ed essere al sicuro dalle persecuzioni.
Ma non basta. «Servono politiche di integrazione serie in grado di creare condizioni che permettano a migranti e rifugiati di contribuire non solo alla crescita economica dei paesi di destinazione ma anche al mantenimento dei rispettivi sistemi fiscali e di welfare».
Le guerre contemporanee combattute nei campi di battaglia di Afghanistan, Siria e Sud Sudan così come tutte le più gravi crisi internazionali, hanno prodotto milioni di profughi e rifugiati. Carlotta Sami ha ricordato cosi l’emergenza dei 60 milioni di migranti costretti a lasciare il proprio paese a causa di eventi esterni Di questi, 40 milioni sono i profughi in casa propria, i cosiddetti “sfollati interni”. Ad esempio in Siria si contano circa 8 milioni di sfollati. La maggior parte dei rifugiati, contrariamente a quello che si pensa, non vive in Europa ma ha trovato riparo nei paesi limitrofi, come Iran, Giordania, Turchia, Kenya. I flussi migratori sono aumentati ma solo una minima parte riesce ad arrivare in Europa. I tre Paesi Ue con il maggior numero di arrivi sono Germania, Svezia e Austria. l'Italia continua invece ad essere un Paese di transito verso il Nord Europa. Eppure le istituzioni europee non sono ancora in grado di trovare una soluzione adeguata. Manca un sistema di accoglienza dei rifugiati che sia omogeneo mentre la difficoltà della politica a gestire il fenomeno genera disagio e diffidenza fra i cittadini. La situazione generale di crisi finanziaria, del mercato del lavoro e del sistema pensionistico ha peraltro favorito la propaganda anti-immigrazione condotta da quasi tutte le forze politiche e dai media. “Solo recentemente hanno iniziato a diffondersi studi che dimostrerebbero come le migrazioni generano anche nuova ricchezza, e nuove opportunità di sviluppo", ha precisato la portavoce dell’Unhcr.
Secondo uno studio della Tent Foundation, pubblicato solo poche settimane fa, l'accoglienza dei profughi incrementerà il debito pubblico dell'Unione europea nel suo complesso per 69 miliardi di euro entro il 2020, ma nello stesso periodo i rifugiati faranno crescere il Pil di 126,6 miliardi. «Ma affinché questo si realizzi, gli Stati devono facilitare l’ingresso dei rifugiati in campo economico, riducendo ad esempio le restrizioni al mercato del lavoro, riconoscendo e valorizzando le competenze professionali dei richiedenti asilo in modo da poter rispondere ai bisogni delle aziende».
La parola d’ordine è insomma integrazione economica. Anche perché, come ha precisato Antonio Spilimbergo, che al Festival di Trento ha parlato dei cambiamenti economici in Europa determinati dall'emergenza profughi, «nessuno studio ha calcolato quanto durerà il flusso migratorio: dopo Medio Oriente e Siria, altri Paesi, africani in particolari, sono a rischio crisi e quindi pronti a generare nuove emergenze umanitarie». Durante la sua lezione, il capomissione del Fondo Monetario Internazionale ha presentato una ricerca che dimostra che gli effetti economici dovuti all’emergenza profughi sulla popolazione è relativa, «così come un’integrazione veloce abbassa i costi che uno Stato deve affrontare per far fronte al fenomeno».
Eppure per avere una soluzione definitiva è necessario affrontare il problema alla radice e stabilizzare le aree critiche di partenza, vale a dire la situazione di quei paesi che dilaniati da conflitti interni generano profughi e rifugiati. «Ad oggi non siamo riusciti a risolvere alcun conflitto. Un dato ancora più preoccupante se si considera che le guerre nel mondo sono in aumento e diventano sempre più complesse e stratificate», ha aggiunto Soda.
Intanto allo stato attuale, non esistono canali legali per emigrare, neanche per i richiedenti asilo politico. «La situazione in Europa è quindi peggiore rispetto a quella esistente un secolo fa, all'epoca delle dittature, quando gli esuli (ad esempio gli antifascisti italiani) trovavano accoglienza in paesi europei democratici, fa notare ancora la portavoce dell’Unica. Devono dunque essere cambiate le regole e deve diffondersi la consapevolezza che tutti devono contribuire, perché questa è una crisi internazionale, non il problema di un paese o di una manciata di paesi».
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