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Libia sempre più infernale? I migranti africani cambiano rotta

"Dal Sudan sempre più persone tentano la via dell'Egitto: sanno di andare incontro comunque a rapimenti, soprusi e un viaggio in mare più lungo, ma lo reputano un passaggio migliore rispetto allo scempio libico", spiega il sacerdote eritreo candidato al Nobel per la Pace 2015, Mussie Zerai. Che in queste ore sta ricevendo centinaia di chiamate dei parenti degli almeno 400 connazionali tra gli 880 dispersi nei naufragi dei giorni scorsi

di Daniele Biella

Torture, rapimenti, vessazioni di ogni tipo, possibilità di imbattersi nelle milizie di Isis nei lunghi tratti da compiere via terra, viaggi in mare in condizioni sempre più atroci (l’ultima efferatezza dei trafficanti, una barca che traina un’altra senza motore): “la Libia sta diventando sempre più off limits anche per i migranti stessi, in particolare chi proviene dall’Africa occidentale”. A rivelarlo è don Mussie Zerai, sacerdote eritreo candidato al Nobel per la pace 2015 per il suo impegno per i diritti umani e presidente dell’ong Habeshia.

Ma come raggiungono il Mediterraneo, le centinaia di migliaia di persone in fuga Eritrea, Mali, Gambia e altri Stati di emigrazione forzata? “Da ovest, il grande lager a cielo aperto di smistamento illegale rimane il Niger, ma il centro delle rotte di oggi è il Sudan, in cui arrivano anche le persone da Eritrea e Somalia. Da qui, la nuova meta è l’Egitto, nonostante si sappia l’ostilità di quel paese verso i migranti e la comunque elevata efferatezza dei trafficanti”, sottolinea Zerai. “I migranti cercano di seguire il meno peggio tra gli inferni che sanno di avere davanti a sé, e vanno verso l’Egitto anche se sono coscienti che la tratta da compiere nel Mar Mediterraneo sarà più lunga”.


I migranti cercano di seguire il meno peggio tra gli inferni che sanno di avere davanti a sé

Sono giorni terribili quelle che sta vivendo il sacerdote eritreo, subissato di chiamate dai parenti – il suo numero da anni è un punto di riferimento per lanciare SOS dal mare o da terra, richieste d’aiuto che poi lui rivolge alle autorità competenti – dei dispersi degli almeno sei naufragi (non quattro, quindi) che Habeshia ha documentato solo nell’ultima settimana: “degli 880 morti stimati, almeno la metà erano di nazionalità eritrea ed etiope”, spiega Zerai. “Ora i parenti cercano informazioni, ma non essendoci un registro dei dispersi io non so come aiutarli, se non cercando di intercettare al telefono qualche sopravvissuto che, però, nei pochi casi a buon fine non ha informazioni utili e nel giro di poco tempo si rende irreperibile perché fugge dai centri d’accoglienza italiani nella speranza di chiedere asilo nel Nord Europa”. Il boom degli arrivi degli ultimi giorni ha portato al superamento, anche se per poche unità finora, dei numeri del 2015 (47.740 arrivi, il 4% in più, di cui 19.819 solo a maggio e 7.200 a ridosso della settimana che si è appena conclusa, dati ministeriali), e a un livello record anche per le capacità di accoglienza delle strutture italiane (attualmente 119.294 ospitati, il 13% in più del 2015, con il Viminale che ha richiesto ieri una distribuzione equa a livello provinciale, ovvero 70 richiedenti asilo per Provincia, in deroga al sistema distributivo regionale in vigore dal 2011).

Se i migranti cercano rotte più “sicure”, rimane sempre il problema contro cui si sbattono ogni giorno da troppo tempo le coscienze europee: i viaggi con conseguenti stragi in quel mare che dovrebbe essere la culla e non il cimitero dell’umanità (vedi in coda i più recenti servizi di Vita.it sul tema). “Siamo di fronte a un fallimento totale, dove sono inefficaci anche le tenui iniziative come i ricollocamenti di persone già arrivate in Europa verso altri Stati: la Ue aveva ipotizzato 120mila persone distribuiti in 3 anni, dopo poco meno di un anno si è a quota 1600, di cui mille dall’Italia, il resto dalla Grecia”, evidenzia Zerai. “Non mi stancherò mai di ripeterlo: bisogna investire le energie creando centri di identificazione – e di riconoscimento di visti umanitari verso l’Europa, come prevedono già le leggi vigenti, Trattato di Schengen compreso – nei Paesi terzi nel continente africano, come Etiopia, Kenya e Sudan (dove però negli ultimi tempi i cittadini eritrei vengono perseguitati, a questo link il report di Africa Express)”.

Di recente una delegazione ministeriale italiana è andata in visita ufficiale in Africa toccando anche i tre Stati sopracitati e con uno degli obiettivi proprio l’avvio di programmi di reinsediamento: “un’azione positiva, senza dubbio, ma rimane isolata e quindi senza la necessaria efficacia”, sottolinea Zerai, “l’azione del Governo italiano è una goccia nel mare, ci vuole un progetto europeo, altrimenti le cose non cambieranno mai”. L’Unione europea, a oggi, sembra rimanere sorda all’appello: “oltre alla ricollocazione in atto che non funziona, c’è il grave problema degli hotspot, i centri di identificazione che si sono trasformati in enormi trappole per i profughi, ovvero luoghi da cui essi vengono deportati di nuovo in territorio extraeuropeo o lasciati sul suolo italiano con un foglio di respingimento differito e quindi di lì a poco illegali, anziché potere raggiungere altri Paesi europei per ricominciare una nuova vita lontana dalle deprivazioni”. Attivi dallo scorso inverno, gli hotspot in Grecia e in Italia sono fin dall’inizio al centro delle critiche delle organizzazioni umanitarie e dei media per scarsa trasparenza e impossibilità di accesso. Nelle ultime ore il ministero dell’Interno ha pubblicato le linee guida operative nei quattro centri italiani: Pozzallo, Lampedusa, Trapani e Taranto.

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