Mondo

Prima del dramma. Hebron, dove si viveva sui tetti

Dalla Palestina il diario di Francesca Ciarallo

di Redazione

Hebron. Hebron, che quando ci penso è l?unico momento in cui provo una rabbia cieca. Faccio fatica perfino a pronunciarne il nome. Capisco Rachel, la giornalista del Guardian che abitava nella mia stessa casa e una mattina mi ha detto «Ogni volta che devo andare a Hebron mi viene da vomitare». Ecco il racconto di noi volontari dell?associazione papa Giovanni XXIII: «Hebron è una delle realtà più allucinanti del conflitto israelo-palestinese. Il 20% della città è presidiato dai soldati a causa dell?insediamento che ospita 400 coloni ebrei-americani piazzato in pieno centro storico. Lì vivono più di 20mila palestinesi costretti a sottostare a una serie di ingiunzioni pensate per la sicurezza dei coloni. Appena c?è un incidente dalle parti di Hebron a tutti i palestinesi viene imposto il coprifuoco 24 ore su 24. Nessuno può uscire dalle proprie case, né per andare al lavoro, né per fare la spesa, spesso nemmeno per andare a scuola o per motivi medici. Provare a mettere per iscritto e descrivere l?atmosfera è impossibile. Le strade sono deserte, i negozi sprangati, si vedono solo militari e coloni in giro. Sembra quasi un quartiere disabitato; non si direbbe che dietro le finestre , al di là delle porte chiuse, all?interno delle mura con i portoni sbarrati ci siano migliaia di persone, esattamente come cento metri prima dei blocchi di cemento, dove la città è sotto controllo palestinese e ferve la confusione del mercato, le urla dei venditori, i clacson dei taxi. Il dodicesimo giorno Ogni tanto sbuca da un balcone o da una finestra sbarrata il volto di un bambino che ci saluta o ci indica di fare attenzione perché più avanti i militari hanno fermato un?ambulanza o hanno picchiato e arrestato qualcuno. Quando eravamo a Hebron correva il dodicesimo giorno consecutivo di coprifuoco, dodici giorni in cui quei bambini non sono mai usciti a giocare, dodici giorni di prigione? A Hebron operano da anni i Christian Peacemaker Team, un gruppo di volontari americani che cercano di essere dei deterrenti alla violenza e di promuovere iniziative nonviolente. Ci portano a trovare Z., una donna palestinese, piccola, robusta, con il velo in testa. Z. ci porta sul tetto della sua casa a dare un?occhiata e vediamo qualcosa che non ci saremmo mai aspettati: tutte le persone che per strada non si vedono, tutti i reclusi sono sui tetti a prendere il sole, chiacchierare, ascoltare musica. Storie di bimbi I bambini vanno da un tetto all?altro (le case sono tutte attaccate e con il tetto a terrazza) e giocano. Z. ci mostra i militari appostati più in alto che ci guardano con il binocolo e osservano tutti. Ogni tanto le urlano «va? a casa, va? a casa» e lei gli urla di rimando «sono già a casa!». La sera della partenza, bloccati per due ore di estenuanti controlli all?aeroporto Ben Gurion, con la testa, il naso e il cuore ancora colmi degli odori, dei colori e dei sapori di questa splendida terra, cerco un modo di accomiatarmi dalle persone che ho incontrato, quelle conosciute e quelle che ho solo sfiorato lungo le strade, i marciapiedi, negli autobus, di cui ho scrutato i volti, ho cercato di immaginare le storie, ho creduto di percepire la sofferenza. Vorrei raccontare ancora mille storie. Storie di bambini, della figlia di Noah, professore universitario con un master in metodologie nonviolente preso negli Stati Uniti e fondatore di un centro di riconciliazione dei conflitti, che ha solo 13 anni e vive nel campo profughi Deheisheh (Betlemme) da quando è nata, e una sera ha detto a suo padre: «Papà, vado a farmi scoppiare». O della figlia di Issa, con la quale cercavo di parlare ma mi guardava senza rispondere, finchè suo padre mi ha detto che da quando la mattina precedente i soldati al checkpoint avevano costretto sua madre a svestirsi davanti a lei, non aveva più parlato. Soprattutto, vorrei raccontare di Issa Samandar, che con Jeff Halper, il suo amico israeliano che ce l?ha fatto conoscere, è quello che più ci è rimasto nel cuore. Un israeliano e un palestinese, che lavorano insieme, combattono le stesse battaglie, e uno va dove l?altro non può andare. Issa è un palestinese cristiano, coordinatore del Land Defense Committe di Ramallah, l?omologo palestinese dell?israeliano Icahd, appunto. Al di là dell?impegno sociale, di tutto quello che fa come coordinatore dell?Ldc, io ricordo soprattutto Issa il cantastorie, che sembra uscito da un film di Emir Kusturica. Issa che sa tante cose, che racconta fatti, dettagli, aneddoti della sua gente, che ti fa immaginare i mondi che stanno dietro a ogni persona di questo popolo martoriato. Quel giorno a Ramallah Eravamo arrivati all?appuntamento con lui spaventati e tesi, nel tragitto ci eravamo trovati nel bel mezzo di una sparatoria. Le raffiche fischiavano intorno. Io ho pregato, un flash, forse una preghiera strumentale, ho pensato al mio uomo, a mio padre e ai miei amici, se mi fosse successo qualcosa li avrei traditi, avevano avuto fiducia in me, nelle mie scelte. Gesù è la tua terra, sono troppo giovane per morire. è strano come in questi momenti vengano in mente pensieri che nella normalità consideriamo banali, scontati. Riusciamo ad arrivare al centro della città. L?incubo era appena cominciato. Inizia il bombardamento degli aerei F16. La gente continua a camminare per strada, in una parvenza di normalità. Ma l?aria è tremenda, immobile. Faccio fatica a respirare. Stiamo attaccati l?uno all?altro, io, Giovanni e Fabio, non ci escono parole. Gruppi di ragazzini dai 15 anni in su tutti col kalashnikov addosso. F-sixteen, dice ogni tanto qualcuno. F-sixteen… F-sixteen ripete la mia mente in una cantilena senza fine. Il collaboratore di Issa viene a prenderci, ci porta nell?ufficio dell?Ldc. «Qui siamo al sicuro, in questo palazzo c?è un ufficio del ministero degli Affari sociali palestinese, quello di Abu Alla, per intenderci quello che negozia con Peres, non avranno il coraggio di bombardarlo». Issa arriva dopo qualche minuto, capisce la nostra paura e cerca di rincuorarci, scherza, sorride, comincia a raccontarci una delle sue storie. La radio è accesa. La stazione si chiamava Radio Ramallah Peace and Love». E’ allucinante, con questo nome, dare i bollettini di guerra. Parlano in arabo, non capiamo, facciamo domande concitate in inglese. Issa ci fa il tè, ci dà i biscotti. Io consumo il pavimento, avanti e indietro. Entra una ragazza palestinese, piange, ha una crisi isterica. Lei sì e io no? penso. Cade una bomba, vicinissima, sentiamo il boato, si vede dalla finestra il fumo. Io penso che stasera questa storia sarà solo un ricordo, sarò tranquilla a dormire nella casa di Gerusalemme. Voglio andare via, voglio andare via. Lo dico a Issa. è troppo pericoloso ora, mi risponde. Adesso vedo anche la sua tensione. All?improvviso dice: «Basta!», spegne la radio. Ci sediamo, mette una cassetta di Mozart, i concerti per violino. La musica si diffonde nell?aria, copre il rumore delle bombe. Non ho mai vissuto niente di più surreale. Io che prendo il tè ascoltando Mozart mentre intorno bombardano. Mi viene da ridere. Paradossalmente, riusciamo a calmarci, a riacquistare un po? di lucidità. Cominciamo perfino a scrivere un comunicato. All?improvviso torna il collaboratore di Issa: «Non voglio spaventarvi, ma ci sono tre elicotteri Apaches che girano qui sopra, non so che intenzioni hanno, ma è pericoloso. Dobbiamo andarcene». Usciamo. Per strada ci sono tre ragazzi sul muretto, urlano agli elicotteri. «Vedete? Siamo qui, sparateci, siamo qui». D?istinto cerco gli alberi per ripararmi? che intelligente che sono. Stare sotto gli Apaches è peggio degli F16. Sono lì, vicini, e tu ti senti un bersaglio mobile? come in un videogioco a quello lassù gli gira di schiacciare il pulsante e io non ci sono più. Anche se razionalmente sai, e ti continui a ripetere, che non è poi così facile. Il terrore mi blocca le gambe. Issa mi parla, io lo ascolto a malapena? se ne accorge. Mi dice: «Questo è proprio un mondo pazzo, Francesca. Sai qual è la cosa migliore che possiamo fare in questo momento? Metterci a ballare per strada». Abbiamo continuato a camminare ballando? La sera ero a letto, nella casa di Gerusalemme, dove siamo riusciti a tornare dopo ore, attraverso sentieri sterrati e polverosi, a rischio di spari e lacrimogeni, e dopo un numero imprecisato di checkpoint. Francesca Ciarallo


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